Romagna: terra della birra
L’esperienza dell’agronomo Gaetano Pasqui, capostipite degli odierni birrifici artigianali
Se si pensa alla birra viene subito in mente l’Europa centrale: la Germania, per esempio. Però anticamente questa bevanda era sorseggiata anche dalle genti del mediterraneo solite, nella maggior parte dei casi, ad usare timo o rosmarino in luogo del luppolo. Così gli etruschi, per citare una popolazione che in tempi antichi si era stanziata anche in Romagna, non disdegnavano beveroni di cereali fermentati. Con la supremazia della vite, e quindi del vino, la birra rimase affare per pochi, produzione limitata e artigianale per lo più prodotta in conventi e monasteri, e quindi bibita esclusiva, per così dire di nicchia. Il clima, da queste parti e in tutto lo Stivale, è più favorevole per la trasformazione dall’uva al vino. Tuttavia, più di un secolo fa, un forlivese scommise sul luppolo, ingrediente ormai fondamentale per la birra. E’ quanto riportato su “L’uomo della birra”, saggio pubblicato dalla casa editrice CartaCanta, scritto dal medesimo autore di questo articolo. Scalzare il mito del sangiovese è e resterà sempre un’impresa impossibile, ma Pasqui, favorito dall’infestazione di una perniciosa malattia della vite, vide possibile la diffusione delle luppolaie in Romagna. Giacché il luppolo nasce spontaneo, in riva ai fiumi, e non è poi tanto diverso da quello prestigioso e aromatico in voga nell’Europa centrale. L’indagine storica, condotta dallo scrivente, discendente di Gaetano Pasqui, protagonista del volume, prende in esame la singolare iniziativa del romagnolo, agronomo autodidatta che per primo produsse birra con luppolo italiano. In meno di cento pagine si riscopre questa storia, svoltasi nei dintorni di Forlì, nella casa di famiglia ove non mancavano le stalle nel retro, un pozzo e un grazioso gazebo in ferro battuto in cui i padroni passavano i pomeriggi estivi. La casa, situata a un paio di chilometri dal centro di Forlì, in località Bertarina a pochi passi dal ponte vecchio di Vecchiazzano, fu la prima fabbrica che produsse birra con luppolo italiano. Tutto questo ora non c’è più e al suo posto sorgono campi e palazzine costruite pochi anni fa. Il nome del forlivese Gaetano Pasqui a metà dell'Ottocento era noto per la sua attività di inventore di attrezzi agrari, di costruttore di modelli di macchine per migliorare la coltivazione dei campi e per i suoi studi pionieristici su barbabietole e arachidi. Ma l’impresa che fece parlare di lui in tutta Italia e non solo fu l’avvio di una fabbrica artigianale di birra, una delle prime in Italia (dal 1835) e la prima prodotta con luppolo italiano. Egli era, infatti, un birraio ma il costo del luppolo importato dalla Germania era diventato proibitivo: quindi pensò di introdurne la coltivazione in Italia. Raccolse le piantine di luppolo selvatico che crescevano nei pressi di casa sua, ne studiò le proprietà e provò a coltivarle: nel 1847 produsse la prima birra fatta con luppolo italiano. Solo nel 1850 ebbe le prime soddisfazioni e nel 1856 conseguì una medaglia in occasione dell'Esposizione provinciale di Forlì, cui seguirono altri riconoscimenti a Firenze (1861) e a Londra (1862). I suoi studi (fu anche assistente alla cattedra di agronomia nel Regio istituto tecnico di Forlì) furono ammirati nelle più prestigiose Università e il suo luppolo, nonché la sua birra, riscossero successo in varie città d'Italia e d'Europa, come testimoniano documenti e opuscoli conservati nel Fondo Pasqui della Biblioteca comunale di Forlì. La Birra Pasqui non sopravvivrà a Gaetano, morto nel giugno del 1879 a settantadue anni, ma l'esperienza dell'agronomo forlivese fu riportata su testi scientifici e accademici dell'epoca e diede impulso alle grandi aziende che tutt'ora sono marchi conosciuti. Decine di migliaia di bottiglie (in terracotta) smerciate ogni anno e appositi strumenti agrari, inventati ad hoc dal forlivese, costituiscono il frutto di quest’esperienza tutt’altro che improvvisata. Gaetano Andrea Leonardo Pasqui morì nella casa al numero 18 di Borgo Ravaldino (ora corso Diaz) alle 14.45 del 19 giugno 1879. Lasciò la moglie Geltrude Silvagni e i figli Tito, Ottavia, Claudia, Livia. Ora è sepolto nella tomba di famiglia situata nel Cimitero monumentale di Forlì. L’intuizione dell’agronomo di rendere la Romagna una regione della birra, rimasta latente per centocinquant’anni, da qualche tempo sembra riaffiorare: a macchia d’olio sono diffusi piccoli birrifici artigianali, anche domestici, per intenditori o semplici appassionati.
Umberto Pasqui
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