Brani tratti dalla collaborazione con il periodico in rete ForlìToday. Il Foro di Livio è il nome del blog che curo dal giugno del 2016 a cadenza settimanale. Chi si servisse di questi testi o parti di essi è tenuto a citare la fonte e l'autore (Umberto Pasqui).
Come stanno i canguri di
Forlì?
Ci fu un tempo in cui, nei
Giardini pubblici, furono collocati marsupiali dall'Australia e
misero su famiglia.
Un tavolo anatomico, una
tavola da cucina e una casa misteriosa
In un sito internet di
attualità interamente in latino, viene dedicato spazio a due
romagnoli: Morgagni e Artusi. Cosa dicono di loro?
Una facciata
irriconoscibile per un luogo ben conosciuto
La facciata di un
importante luogo di culto cittadino è stata stravolta a metà
dell'Ottocento. Ora sarebbe irriconoscibile.
Una diciottenne morta per
amore
L'infelice storia di una
forlivese ebbe eco nei palazzi romani dove si svolse e fu cantata da
poeti e narratori.
Se la luna è in Capricorno
"E quindi uscimmo a
riveder le stelle": così Dante esce dall'Inferno. Un forlivese
ci rimane: come sommo trattatista di astrologia.
E la gallina del vicino
diventa un'oca
In pieno fervore di
riscoperta della romagnolità, Aldo Spallicci curava un'antologia in
dialetto per le scuole "con esercizi di traduzione in italiano".
Riaprono (solo per oggi) le
antiche osterie
Nella Forlì ottocentesca
c'erano oltre trenta osterie, andiamole a cercare con la "realtà
aumentata". Vino, piadina e molto di più.
La Belle Èpoque dei
fotografi forlivesi
Siamo passati in pochi anni
dai rullini alle immagini digitali. I fotografi, dal 1846, si
diffusero a Forlì.
Un tuffo da campione dalla
Forlì anni Venti
Si vedrà come un forlivese
fu campione italiano dal trampolino negli anni Venti, passando tra il
disegno di un aereo e l'acqua del biondo Tevere.
Quando era di moda bere il
liquore con la coca
A Forlì, nel 1871 fu
premiato un Elixir Coca: fu poi abbandonato quando ci si renderà
conto che l'estratto di foglie sudamericane è tossico.
Ci vediamo al porto di
Forlì
Forlì aveva un porto? Nel
Settecento era prevista la costruzione di una darsena. Il progetto,
però, non andò "in porto". Eppure secoli prima...
I venti castelli di Forlì
La domanda che ci si pone
è: quanti castelli ci sono a Forlì? La risposta più comune
potrebbe essere: "uno". Risposta sbagliata.
Si alza il sipario sui
teatri perduti
Una lunga tradizione
teatrale caratterizza Forlì, città che ha ospitato, nel corso della
sua storia, sale di tutto rispetto.
Forlì vs Bologna:
arbitraggio all'inglese (o quasi)
Edoardo, Re d'Inghilterra,
si trova, suo malgrado, a fare da pacificatore tra bolognesi e
forlivesi. Non avrà molto successo.
I forlivesi colorati e la
salamandra gigante
Nell'ottobre del 1636 i
forlivesi videro sfilare, in centro, una grossa salamandra sormontata
da una statua della Madonna.
Da Stoccolma a Forlì: la
tappa di una Regina
Cristina di Svezia,
regnante nella prima metà del Seicento, passò da Forlì e qui le
cronache del tempo si prodigano di particolari.
Una visita agli antichi
ospedali
Fino a tempi recenti, a
Forlì c'erano due ospedali pubblici. Qualche secolo fa, esistevano
strutture sanitarie diffuse in modo capillare.
Sulle tracce della comunità
ebraica forlivese
Una traversa di corso Diaz
è dedicata a Sara Levi Nathan; almeno fino alla fine dell'Ottocento
aveva nome “via dei Giudei”.
Indagine sulle chiese di
Maria
Un'indagine o, per lo più,
un elenco sulle chiese mariane di Forlì tra passato e presente:
quante sono state, e quante sono, nel centro cittadino?
I forlivesi alla prima
crociata
Chi furono i forlivesi che
presero parte alla prima crociata? E cosa è rimasto di
quell'esperienza?
Chi erano i Novanta
Pacifici?
Per oltre un quarto di
millennio hanno placato i bollori della litigiosa aristocrazia
forlivese: chi erano i Novanta Pacifici?
Forlì al tempo delle
ciminiere
Oltre a torri e campanili,
c'è stato il tempo delle ciminiere. Agli inizi del Novecento, Forlì
era tra le prime città industriali d'Italia.
Giocando nel chiostro
scomparso
Un chiostro antico, una
volta espropriato, fu sede di un'istituzione cittadina tra le più
importanti d'Italia per la qualità dell'insegnamento.
Forum, dove sei?
Si fa presto a dire "Forum
Livii"... Ma dov'era esattamente questo Forum? Tra deboli
tracce, cerchiamo di capire come fosse la città romana.
Che fine hanno fatto le
mura di Forlì?
Nel 1904 si demolisce la
cinta muraria quattrocentesca. Sull'onda dell'entusiasmo della "città
aperta", Forlì ha perso un tesoro.
Forlì e i dodici Papi
Pur essendo ghibellina per
antonomasia, Forlì è stata visitata da numerosi Pontefici che
furono accolti con un apparato festoso e caloroso.
I dieci anni che
sconvolsero la piazza
Negli anni Trenta, piazza
Saffi cambiò faccia: un lato divenne razionalista. Cosa c'era prima?
E che ruolo ebbe Mussolini?
Come
stanno i canguri di Forlì?
La domanda potrebbe evocare suggestioni o far pensare a
vaneggiamenti. In realtà è un po' il succo del discorso di una
lettera comparsa su “Famiglia Cristiana” nel dicembre 1977. I
mittenti, allora adolescenti, sono Riccardo e Lisa Servadei, figli di
Afro e Carla, forlivesi residenti in Australia: “Vorremmo sapere
come stanno e in quanti sono i canguri che abbiamo donato allo zoo di
Forlì due anni fa” scrivono.
Per “zoo di Forlì” s'intende una parte dei Giardini pubblici poi
Parco della Resistenza che, almeno fino agli anni '80, era popolata
da animali in cattività, specialmente daini ed emù. “C'è voluta
la faccia tosta del babbo – raccontano i ragazzi da Melbourne - a
ottenere tutti i permessi per mandarli a Forlì: ha brigato per due
anni con ministri federali e capi dipartimento, e si è fatto
ricevere anche dal Vice Primo Ministro”.
A questa domanda fa seguito la risposta di Alberto Silvestri, noto
veterinario e studioso allora direttore del “Melozzo”, mensile
del Comitato Pro Forlì storica artistica: “Sono lieto di
assicurarvi che i simpatici marsupiali godono di ottima salute e si
sono riprodotti, segno questo, che si sono magnificamente adattati
alle condizioni climatiche della città che li ospita. D'inverno i
ricoveri chiusi, sono riscaldati da lampade a raggi infrarossi.
Entrambe le coppie hanno dato alla luce due piccoli ciascuno”.
Inoltre, quasi a mettere il sigillo su una vicenda la cui memoria in
città pare sbiadita, aggiunge: “I vostri canguri costituiscono la
principale attrazione per i forlivesi che frequentano i giardini
pubblici, ed in particolare per i ragazzi: intere scolaresche
accompagnate dagli insegnanti, sono venute anche dai centri vicini
della Romagna e dell'Emilia”. La presenza dei canguri a Forlì,
infatti, secondo Silvestri “oltre a rappresentare un incitamento
alla protezione di specie animali, è anche un messaggio di
fratellanza tra i popoli, oltreché un atto di attaccamento alla
vostra terra”.
I canguri erano stati recintati con alte reti e fu prevista una targa
“In memoria di Afro Cerotti” (morto nel '75), uno dei “donatori”
dei marsupiali portati da sua moglie Connie. Alcuni di questi canguri
fuggirono per poi essere sbranati da cani.
Un tavolo anatomico, una tavola da cucina e una
casa misteriosa
Il sito “Ephemeris” (ephemeris.alcuinus.net) di matrice polacca,
intende riproporre il latino come lingua universale anche nella
comunicazione. Nella sezione “Biographiae” spuntano due curiosità
forlivesi. Il primo personaggio in evidenza è un grande medico, il
secondo un grande gastronomo. Nel sito, si legge in latino una
dettagliata biografia che sicuramente sarebbe piaciuta a Giovanni
Battista Morgagni definito anatomiae princeps et pathologiae
modernae conditor. Costui, anno 1682 in urbe Foro Livii
(Italice: Forlì) natus erat.
Orfano del padre Fabrizio, fu cresciuto ed istruito dalla madre Maria
Tornielli. Costei gli insegnò il latino, lingua che il futuro medico
parlava correntemente. Non è un caso se il Liceo classico porta il
suo nome. All’età in cui gli adolescenti odierni agguantano il
“patentino”, Morgagni faceva parte della prestigiosa Accademia
forlivese dei Filergiti: qui potenziò non solo il latino ma si
applicò nella matematica, in archeologia e in astronomia.
Fu tanto precoce da essere uno studente universitario già a sedici
anni a Bologna e qui, grazie alle lezioni di Antonio Maria Valsalva,
incontrò l’anatomia. Nel 1701 era dottore in filosofia e in
medicina con encomi dei professori. Fu assistente dell’imolese
Valsalva ma poi fu chiamato alla cattedra di medicina teorica
dell’Università di Padova come successore di Antonio Vallisneri
(che, come Valsalva, dà il nome a uno dei padiglioni del nosocomio
forlivese).
Dopo cinquant’anni di lavoro, si cimentò nella sua opera
letteraria più famosa: il De sedibus et causis morborum per
anatomen indagatis, appunto. Pietra miliare della medicina, il
testo pone le basi di un nuovo sistema fondato su un rigoroso metodo
sperimentale. Ebbe un successo clamoroso in tutta Europa e fu
indispensabile per le successive scoperte mediche.
Passando dal tavolo anatomico al tavolo della cucina, ecco nel
medesimo sito anche una biografia del conterraneo Pellegrino Artusi.
Il suo libro più celebre è reso con una rima gerundiva nel titolo:
De scientia coquendi deque arte salubriter edendi.
Come i volumi di Morgagni furono indispensabili per l’anatomia
patologica, quello di Artusi è un caposaldo della gastronomia
italiana.
Passando dalla stradina tra corso Diaz e via Merenda, tra i civici 10
e 16 di via Missirini, si nota un edificio. Ebbene, è una casa
misteriosa, oggi. Chi avrà visto, giudicherà, magari sollecitando
un intervento per valorizzarla. Infatti, quella è la casa del
principe anatomico Morgagni.
Una
facciata irriconoscibile per un luogo ben conosciuto
Se qualcuno avesse inventato degli occhiali capaci di vedere le città
“com'era”, se li avesse tarati, per esempio, agli anni '30
dell'Ottocento, durante una passeggiata in centro si sarebbe trovato
davanti alla facciata di una chiesa irriconoscibile. Inutile cercarla
ora: c'è ma si presenta in modo diversissimo. I più attenti avranno
optato per l'ipotesi “Carmine” in corso Mazzini, grazie al
portale, ma non è così.
In un'antica litografia, la stessa facciata appare meno scarna e più
agghindata, con qualche fregio di derivazione barocca in più e lo
stemma del cardinale Capranica. Arriva ad assomigliare a ciò che
resta di San Salvatore in Vico, in via Andrelini. Eppure non è
nemmeno quest'ultima.
Il fatto che sia la sede della parrocchia di San Tommaso Cantuariense
potrebbe o disorientare o essere l'indizio definitivo per dare la
risposta. La facciata irriconoscibile è quella di Santa Croce. Il 3
maggio del 1841, infatti, fu posta la prima pietra del Duomo come lo
vediamo ora, nella sua versione ammantata di solennità neoclassica,
con le sei grandi colonne che delimitano l'ingresso.
La fabbrica lavorò per anni, facendo da contrappunto ai più acuti
fermenti risorgimentali. All'interno sono state preservate parti
antiche, come la Cappella del Sacramento, edificata con proventi di
Caterina Sforza e dedicata alla Madonna della Ferita. E la ricca
Cappella della Beata Vergine del Fuoco con la cupola affrescata dal
Cignani.
La Cattedrale, di origini antichissime, fu ricostruita nel
Quattrocento, secolo fondamentale per la storia forlivese: tra
miracolo della Madonna del Fuoco, Ordelaffi e Caterina Sforza. In
quanto “minacciava ruina”, già dai primi anni del '400 la
Cattedrale fu al centro di un lungo percorso di ricostruzione. Il 13
febbraio 1425 si diede avvio alla fabbrica del Duomo che
cinquant'anni dopo fu consacrato dal vescovo Numai col titolo di
Santa Croce e San Valeriano. I rimaneggiamenti furono cospicui, anche
grazie alla devozione dei forlivesi per l'Immagine della Patrona e
alle elargizioni del cardinale Capranica. Già dal 1465 era stato
collocato il portale, attribuito a Marino Cedrini, che ora adorna
l'ingresso della chiesa del Carmine. Il campanile fu forse edificato
sui ruderi di un'antica torre degli Orgogliosi, mentre gli Ordelaffi
avevano dimora proprio davanti alla sede del Vescovo.
È da dire che più volte nella storia la Cattedrale ha cambiato
“volto” nei suoi probabili nove secoli di vita, subendo ampli
rifacimenti secondo gli stili del tempo: romanico, gotico,
rinascimentale...
La chiesa quattrocentesca era a tre navate, gli archi si presentavano
a sesto acuto e le navi a travatura scoperta. Quattro secoli dopo,
ancora “minacciava ruina” sicché venne ricostruita. Non fu
risparmiata dalla guerra: il campanile mozzato venne rifatto negli
anni '70 del Novecento.
Una
diciottenne morta per amore
Leggendo della messa in vendita di Villa Prati, occorre “ripescare”
un episodio languido e melodrammatico ambientato negli anni '30
dell'Ottocento. Che c'entra la Villa all'ombra di Bertinoro? Ebbene,
era dei Prati. La nobile famiglia forlivese dei Savorelli si era
stabilita a Roma dove assunse il titolo degli antichi Muti
Papazzurri. Livio Savorelli si trovò così ad avere tre cognomi, a
cui è da aggiungere anche quello dei Prati, antica aristocrazia
forlivese che, oltre alla Villa, possedeva anche il prestigioso
palazzo di corso Diaz. L’infelice storia d’amore di Vittoria
Savorelli, morta diciottenne nel 1838, ebbe eco nei palazzi romani
dove si svolse e fu cantata da poeti e narratori. All’estero
indicarono questa vicenda come paradigma dell’esasperazione dei
sentimenti tipicamente italiana, oltralpe pareva inconcepibile morire
d’amore.
La ragazza, descritta come bella, istruita ed espressiva, con il
collo da cigno, era una debuttante di alto lignaggio ma pur sempre di
origini provinciali. Vivace e romantica, con quel che di esotico che
una romagnola doveva destare in Roma, la diciassettenne ebbe numerose
richieste di matrimonio. Inaspettata fu quella del principe Domenico
Doria, figlio di Luigi Doria Pamphily e di Teresa Orsini. Cognomi
pesanti come il marmo, alleggeriti da un trasporto nato durante un
ballo sfarzoso: l’amore è reciproco, forte, immediato. Era
l’agosto del 1837.
La giovane perde la testa e il ventunenne pure: il ballo delle
debuttanti fu fatale. Vittoria è invidiata da tutte, la coppia si
mostrava brillante e spiritosa, lei più raffinata, lui più spiccio.
Sempre insieme, sempre presenti agli eventi importanti. In casa Doria
il fatto è guardato con sufficienza, come se si trattasse di un
sentimento passeggero, di una cosa non seria: anche perché, per i
suoi, Domenico dovrebbe aspirare a ben altro che a una signorina
romagnola. In casa Savorelli c’è sbigottimento, incredulità e
paura: ci sarà da fidarsi di questi Doria? I parenti di lei non
avrebbero mai pensato d’imparentarsi con cotanti signori. Finché
accadde: il principe Domenico Doria si reca in casa Savorelli e
chiede al padre la mano della ragazza.
Tutta Roma parla di quest’unione singolare, le malelingue sguazzano
nei pettegolezzi. Finché l’ozio aristocratico è sconvolto dal
colera: una strage, cinquecento morti al giorno. Doria e Savorelli si
dividono: i fidanzati si scrivono, si cercano, ma il padre di lui è
colpito dalla malattia e spira. Vittoria e Domenico s’incontrano al
funerale, consapevoli che le nozze che stavano preparando sarebbero
state rinviate. Scongiurato il pericolo colera, i due si rivedono in
modo frequente e si torna a parlare di matrimonio.
Domenico si reca a Londra assieme allo zio che però manifesta la sua
contrarietà alle nozze con la giovane romagnola. Tre mesi di
permanenza inglese, tanto bastano a Domenico per ripensarci. Vittoria
si chiude in convento, vuole stare lontana da tutti, chiusa e
reclusa, accompagnata solo dalle lettere di lui che arrivano
quotidiane. Nell’attesa di riabbracciarlo sceglie la solitudine e
la preghiera. Dopo qualche settimana le lettere si fanno più rade,
fin quando finiscono. Un giorno, però, dopo tanto silenzio, arriva
un messaggio al padre di lei: presagio inquietante.
Il principe Doria, distaccato e schietto, dichiara che non può
sposare Vittoria.
Ritira la parola data perché lo zio si oppone alle nozze. Il padre
di lei scrive al fedifrago, ricordandogli la promessa, il fedifrago
risponde, dicendo di essere disposto a sposare la forlivese purché
lo zio tolga il veto.
Cosa che ovviamente non succede.
C’è poco da fare, il rampollo Doria se la sta spassando a Londra,
Parigi, Bruxelles e Vienna. Vittoria lo viene a sapere e si ammala:
gastrite nervosa. È gravissima, ha febbre e convulsioni. Il 17
ottobre 1838, dopo qualche ora di agonia, muore davanti alle suore
del convento.
Se
la luna è in Capricorno
C'è ancora chi fa confusione tra astronomia e astrologia, mentre un
tempo erano considerate pressoché la stessa cosa, come l'alchimia e
la chimica. Di allora è Guido Bonatti, nato e morto a Forlì nel
Duecento.
Il passato remoto non permette di compilare una sua carta d'identità
con certezza.
Alcuni episodi, invece, appartengono alla storia. Essendo tuttavia un
astrologo, la storia sfuma nella leggenda e di quel signore pacioso,
ritratto in un'effigie postuma con barba e cappello, come un filosofo
o un Babbo Natale serio e pensoso, poco si sa ma è evidente che
fosse sulla bocca di tutti.
Fu al seguito di alcuni signori come Guido Novello da Polenta, Ezzelino da Romano, Guido da Montefeltro. Da buon ghibellino, fu vicino a Federico II.
Fu al seguito di alcuni signori come Guido Novello da Polenta, Ezzelino da Romano, Guido da Montefeltro. Da buon ghibellino, fu vicino a Federico II.
Il suo sapere fu al servizio, oltre che di Forlì, anche di Firenze e
Siena. La quasi totalità dei suoi studi, delle sue previsioni, delle
sue divinazioni hanno come ambientazione il suo laboratorio collocato
nella cella campanaria della torre di San Mercuriale che ancora oggi
fa ombra a piazza Saffi.
Proprio da Forlì avrebbe letto nelle stelle una congiura ai danni di
Federico II che, avvertito, si salvò.
Nel 1257 se la prese col “tiranno” Simone Mastaguerra, incitando
i forlivesi a togliersi di torno quel signorotto tanto ambizioso e
controverso. Si sa che fu presente anche a Bologna, invitato
dall'Università a insegnare le sue scoperte. A più riprese cercò,
non sempre con successo, di sostenere la scientificità
dell'astrologia attraverso dispute con teologi e prelati di gran
fama.
Nel fatidico 1282, Bonatti è consigliere e medico personale di Guido da Montefeltro, nonché astrologo dedito all'osservazione dei fenomeni celesti dal suo laboratorio.
Sarebbe stato lui a “sbloccare” il lungo assedio dei franceschi mandati dal Papa Martino IV, insofferente dei forlivesi, unica gente ancora a lui insubordinata. Dall'alto del campanile guidò (con l'altro Guido, a terra) la resistenza cittadina contro l'agguerrito esercito francese. C'è chi sostiene che avrebbe predetto il proprio ferimento durante l'assedio, cosa che si avverò. Più che altro individua la data giusta per la vittoria: il 1° maggio. Bonatti, infatti, avrebbe letto nelle stelle la possibilità di una mossa favorevole: a Calendimaggio la Luna sarebbe stata in Capricorno “con la freccia innanzi”.
Nel fatidico 1282, Bonatti è consigliere e medico personale di Guido da Montefeltro, nonché astrologo dedito all'osservazione dei fenomeni celesti dal suo laboratorio.
Sarebbe stato lui a “sbloccare” il lungo assedio dei franceschi mandati dal Papa Martino IV, insofferente dei forlivesi, unica gente ancora a lui insubordinata. Dall'alto del campanile guidò (con l'altro Guido, a terra) la resistenza cittadina contro l'agguerrito esercito francese. C'è chi sostiene che avrebbe predetto il proprio ferimento durante l'assedio, cosa che si avverò. Più che altro individua la data giusta per la vittoria: il 1° maggio. Bonatti, infatti, avrebbe letto nelle stelle la possibilità di una mossa favorevole: a Calendimaggio la Luna sarebbe stata in Capricorno “con la freccia innanzi”.
E il Capricorno è il segno zodiacale proprio della città di Forlì.
In qualunque modo la si pensi, i forlivesi vincono, facendo dei
francesi sanguinoso mucchio la città continuò ad essere per
qualche mese l'ultima roccaforte ghibellina italiana.
Poi torna inghiottito tra le pieghe oscure della storia: finisce la
vita in monastero? Si è pentito delle sue “ghibellinerie”? Ha
mai esercitato riti magici? Intanto, senza porsi troppi scrupoli,
Dante lo pone all'Inferno tra gli indovini. Indubbiamente fu un
personaggio, un personaggio di rilievo (ha lasciato diversi
trattati), affabile e affabulatore, avrebbe scoperto settecento
stelle mai conosciute prima.
Chiaro nell'esposizione, benché discettasse di “massimi sistemi”,
è riconosciuto essere il più autorevole trattatista di astrologia
del Medioevo italiano. In uno dei suoi testi, espone precise
istruzioni per scegliere nella maniera più opportuna dove dovrà
sorgere una città, un castello, una rocca, una chiesa. Si lancia in
previsioni su come andranno le istituzioni del suo tempo, tratta di
medicina astrologica dettagliando influssi negativi e positivi nella
cura dei malanni. Dai corposi ma chiari trattati vennero scritti
manuali che si diffusero con successo.
Ora, Forlì, città che non ha mai abbandonato la sua astrofilia,
potrebbe dedicare qualcosa d'importante a questo singolare
personaggio. Dalle nostre latitudini, il Capricorno è visibile nel
cielo serale da metà estate a metà autunno come un debole triangolo
basso sull'orizzonte che, per la fantasia degli antichi, rappresenta
un animale simile a un pesce - capra.
E
la gallina del vicino diventa un'oca
L'invidia, brutta bestia. Così una semplice gallina può
trasformarsi in un'oca, se è del vicino. O addirittura in un pavone,
le cui penne occhiute ricordano che la vista, spesso, inganna. Questo
è uno dei modi di dire che viene rispolverato in un interessante
fascicolo degli anni '20. Nella versione originale suona così: La
galena de' vsen la pêr un'oca.
In pieno fervore di riscoperta della “romagnolità”, Aldo
Spallicci curava un'antologia in dialetto per le scuole “con
esercizi di traduzione in italiano”. Nella “parte seconda” (per
la quarta classe elementare), si leggono proverbi, racconti, storie,
indovinelli, illustrazioni seppiate come la carta che
inevitabilmente, nel frattempo, è ingiallita. Infatti, il libretto
di un'ottantina di pagine fu pubblicato nel 1926 “in conformità
dei Programmi Ufficiali del 1° ottobre 1923” da Remo Sandron
Editore. “La Teggia” è il titolo della raccolta che attinge da
tradizioni popolari o da altri ricercatori e studiosi della fonetica,
dell'idioma e della cultura tipica di queste parti. Costava tre lire
ed era inserita in una collana di altri “libri regionali”
approvati dal Ministero della Pubblica Istruzione.
La riforma Gentile, infatti, consigliava di avvicinare gli scolari
alla lingua italiana attraverso lo studio dei dialetti e della
cultura regionale. Questa è una delle tante opere che
l'intellettuale romagnolo dedicò agli studi folclorici della sua
terra.
L'intento, secondo Spallicci, era questo: “Assecondino i maestri
quest'opera che porterà buoni frutti alla letteratura nazionale di
domani, e prendano a cuore la forma e lo spirito di questo vernacolo
(…) uno dei più interessanti d'Italia, essendo rinchiuso tra
l'Appennino e il mare ed avendo conservato così, poco toccato
dall'influsso degli altri, più pure le native impronte”.
Tra le illustrazioni spicca il sepolcro di Barbara Manfredi ancora
collocato nella chiesa di San Biagio, prima che un'ultima sciagurata
propaggine di guerra distruggesse, alla fine del '44, lo storico e
prezioso luogo di culto forlivese. Ora, ricostruito pezzo per pezzo,
il monumento quattrocentesco vale una visita in San Mercuriale.
Sfogliando “La Teggia” dalle pagine color piadina (se così si
può dire) in queste calde giornate, si può ricordare che: E' sol
l'è l'uröla di purett, cioè il sole è il focolare dei poveri.
I più romantici, nelle notti estive, ammireranno la scia de La
strê ch'la mena a Roma (la Via Lattea), se l'inquinamento
luminoso di Forlì ancora lo consente.
E magari assaggiare qualche acino di agliédga, cioè “uva
lugliatica”.
Così tornano alle orecchie suoni, storie ed espressioni che
sbiadiscono, come Sté impëtt (rendersi garante), o Mél
de' paes (nostalgia). Nostalgia per un mondo che pare lontano, o
vivo solo attraverso testimoni anziani. Dunque, chi ancora conserva
modi di dire particolari di Forlì e dintorni (in molti casi già
tramandati e pubblicati da Spallicci e altri) non li dimentichi,
anzi, li comunichi rendendoli vivi.
Riaprono
(solo per oggi) le antiche osterie
Che si fa stasera? Andiamo da Ghibulin a
bere una foglietta. Questa frase ora è di significato
oscuro, in realtà era pienamente compresa dai nostri antenati, colti
o ignoranti che fossero.
Nella Forlì ottocentesca c'erano oltre trenta osterie: andiamole a
cercare con la “realtà aumentata”. Innanzitutto vediamo i punti
in comune: vendono più o meno la stessa cosa, cucina romagnola, o
semplicemente vino e piadina. Al bando stramberie d'altrove: del
resto, cosa c'è di meglio? Una frasca di sempreverde sull'uscio
significa: "qui si mangia e si beve vino". Quando il
raccolto è abbondante, si possono pagare due soldi all'ingresso e
bere a sazietà. Le misure di capacità degli alcolici a sua volta
sono caratteristiche e basate su accise pontificie. Sopravvive il
“quartino”, ma ci si può accontentare di un “quintino” detto
anche chierichetto. Frequente è la foglietta (mezzo
litro), servita in brocche di terra ceramicata con i bolli fiscali
sotto l'orlo. Multipli della foglietta sono il boccale e il
congio.
Dal soffitto pende la lucerna e in un angolo si stende un camino
largo, coperto di graticole e tegami vari. Sul bancone spiccano
boccali, bicchieri, mezzette pronti per essere riempiti.
Gli astanti, diversi per censo, si lasciano andare nel linguaggio e poco si preoccupano di convenzioni o del politicamente corretto. Anzi, spesso la locanda è luogo per esprimere, anche con violenza e provocazioni, la propria appartenenza politica, come avvenne nel 1851: una rissa sfociata in pedinamenti, coltellate, sassate, bastonate fu generata proprio all'interno dell'osteria di Montanari, in Borgo Ravaldino, dove pure vediamo la Bombarsòna, l'Ustarì d'la Stèla, l'Osteria della Pera e l'Aquila d'oro. L'Osteria diventa spesso covo di sovversivi e luogo immorale per i benpensanti. Si gioca a carte, ci si insulta, ci si mena, ci si ubriaca: certo, almeno per la maggioranza dei casi, luoghi rudi e potenzialmente pericolosi.
Gli astanti, diversi per censo, si lasciano andare nel linguaggio e poco si preoccupano di convenzioni o del politicamente corretto. Anzi, spesso la locanda è luogo per esprimere, anche con violenza e provocazioni, la propria appartenenza politica, come avvenne nel 1851: una rissa sfociata in pedinamenti, coltellate, sassate, bastonate fu generata proprio all'interno dell'osteria di Montanari, in Borgo Ravaldino, dove pure vediamo la Bombarsòna, l'Ustarì d'la Stèla, l'Osteria della Pera e l'Aquila d'oro. L'Osteria diventa spesso covo di sovversivi e luogo immorale per i benpensanti. Si gioca a carte, ci si insulta, ci si mena, ci si ubriaca: certo, almeno per la maggioranza dei casi, luoghi rudi e potenzialmente pericolosi.
Figura assimilabile alle osterie è quella dell'imbonitore, una sorta
di pubblicitario strillone che va nei luoghi più frequentati della
città per propagandare questo o quel locale dettagliando i prezzi
dei vini.
Le insegne altro non sono che tavoli, botti, oppure nomi variopinti su banderuole in legno o ferro battuto e caratterizzati con simboli particolari, come il Moro, il Bersagliere, il Cocomero, il Cannone, la Pera. Nel Cantone di Mozzape', angolo di piazza Saffi dove c'è la chiesa del Suffragio, vediamo l'Osteria della Pace. Si sa poi che dal Ribelle si serve piadina ed ottimo sangiovese.
Ovviamente in ogni osteria il sangiovese è il migliore, come si asserisce da quella della Buratela. L'Osteria di San Marco, ricordata già nel 1755, ha sede in Borgo Cotogni dove poi sarà albergo, ospiterà anche Gioacchino Murat. La si trova anche in Schiavonia, pure col nome di Leon d'oro (come altre locande).
Le insegne altro non sono che tavoli, botti, oppure nomi variopinti su banderuole in legno o ferro battuto e caratterizzati con simboli particolari, come il Moro, il Bersagliere, il Cocomero, il Cannone, la Pera. Nel Cantone di Mozzape', angolo di piazza Saffi dove c'è la chiesa del Suffragio, vediamo l'Osteria della Pace. Si sa poi che dal Ribelle si serve piadina ed ottimo sangiovese.
Ovviamente in ogni osteria il sangiovese è il migliore, come si asserisce da quella della Buratela. L'Osteria di San Marco, ricordata già nel 1755, ha sede in Borgo Cotogni dove poi sarà albergo, ospiterà anche Gioacchino Murat. La si trova anche in Schiavonia, pure col nome di Leon d'oro (come altre locande).
Dietro il teatro c'è un'osteria nota come Pirin, già
dell'oste detto Cul rott (espressione infelice per ricordare
un intervento chirurgico): alcuni forlivesi, imbarazzati da un nome
tanto volgare, preferiscono chiamarla, non certo migliorando le cose,
osteria dell'Ano infranto. Un tempo era in Borgo Ravaldino. Poi c'è
la Padella, in via delle Celendole (cioè via Allegretti), qui ci si
arrangia: chi vuole mangiare, si avvicenda nella cottura di trippa e
sangue, ventresca e budella con molto sale e pepe grossolano. Merita
menzione Ghibulin, presso il fu Teatro Esperia. L'aspetto è
quello di una cantina, stanzone senza luce ma più che decoroso.
Ghibulin è oste di chiara fama quale unico depositario dell'albana
di Bertinoro, particolarmente raffinato e cerimonioso.
Il salone è frequentato da personaggi illustri della città,
artisti, uomini di lettere, e ospiti d'eccezione, come Giosuè
Carducci.
Nel Borgo San Pietro, si possono citare le osterie Del Gallo, Del
Sole, il Cavallo d'Oro (in via Giove Tonante).
Fuori dalle mura, si parla anche di Fantò, nei pressi degli
attuali viale Vittorio Veneto e via Ridolfi, aggraziato dal suono del
violino del vecchio Ghinoss. E non troppo distante, Zabaiet,
in piazzale Orsi Mangelli fuori porta San Pietro. Il locale semina di
ubriachi la notte, anche in questo caso, il suo vino è migliore
degli altri. Nei pressi della vecchia stazione troviamo l'Osteria dei
Mercanti.
Numerose sono le piccole osterie di Schiavonia dai nomi sbiaditi o
dimenticati, come L'Onda (“dove c'è la bella bionda”, così
recitava la pubblicità popolare in rima),
o Della Luce Elettrica. Difficile identificarle, perché molte
cambiano sede, cambiano osti, ma il menù, più o meno, resta sempre
identico.
Questo mondo non esiste più. A poco a poco, le antiche insegne delle
osterie sono scomparse tutte, sostituite con locali sicuramente più
moderni, igienici, tranquilli ed efficienti ma con nomi che hanno
poco o niente a che fare con l'identità cittadina.
Per una Forlì che vuol dirsi turistica, sarebbe bello incoraggiare,
anche economicamente, chi avesse voglia di aprire un'osteria con uno
dei nomi tradizionali indicati sopra.
La
Belle Èpoque dei fotografi forlivesi
Siamo passati in pochi anni dai rullini alle immagini digitali, ma
occorre fare un salto all'indietro di importanza olimpionica:
benvenuti nel 1846. Cosa accadde in quell'anno di tanto
“fotografico”?
A rispondere è chiamata Michela Mazzoli perché vanta una passione per le foto antiche, nata “quando per la prima volta mi sono trovata incantata da misteriosi personaggi che mi fissavano da lastre negative scattate tra Otto e Novecento”. Così “ho cominciato a raccogliere informazioni sui primi fotografi della mia città e a ricercare le loro fotografia in archivi pubblici e privati”.
Grazie ai suoi studi, spiega che a Forlì si parla di fotografia per la prima volta nel 1846, ed è Aurelio Saffi a farlo in un discorso in cui lodava il lavoro del dagherrotipista Achille Manuzzi, che aveva esposto in occasione del Concorso della Provincia di Forlì nella sezione Belle Arti “Quadretti vari col Dagherotipo, tra i quali il ritratto del Conte Tommaso Saffi”.
Questi pezzi sono perduti.
Non è facile collocare i tanti fotografi che seguirono in ordine
cronologico e moltissimo è andato perso nel tempo. Michela Mazzoli
presenta, grazie ai suoi studi e alle sue scoperte, quanto per ora è
emerso alla luce. Le fonti raccontano dei Fratelli Canè di origine
imolese, arrivati a Forlì con tutta la famiglia intorno al 1860;
aprirono il primo studio fotografico nel 1861 in corso Vittorio
Emanuele (oggi della Repubblica) all’angolo con via Cignani. Lo
studio disponeva della sala di posa e scenografie, del negozio vero e
proprio, del laboratorio e della camera oscura, era intestato ai
“Fratelli Enrico e Battista Canè”, sicuramente sostenuti se non
guidati dal maggiore Raffaele. Questi intraprendenti fratelli
esercitarono in molte città, come Ravenna, Foligno, Arezzo, Spoleto,
Roma. Un’attività storica e longeva: lo studio chiuse nel 1925,
l’anno prima della morte dello storico titolare Gian Battista.
Con l’entusiasmo collettivo che seguì l’Unità d’Italia emerse nei ceti agiati il desiderio di farsi ritrarre, studi fotografici eleganti con sala di posa interna si moltiplicarono.
Le fotografie in formato carta da visita, finemente decorate ebbero
grande successo e divennero anche una forma di collezionismo.
Altri fotografi nella seconda metà dell’800: Brini e Mazzoni in Borgo Vittorio Emanuele negli anni ’60, lo Stabilimento Fotografico Studio di Pittura e lo Stabilimento Fotografico C. Zambianchi in piazza Vittorio Emanuele (cioè Saffi) nell’attuale Palazzo Talenti Framonti, Adolfo Masi in corso Vittorio Emanuele, Ferruccio Sorgato della famosa famiglia modenese di imprenditori fotografi, il Premiato Studio Fotografico di Amedeo Del Monte in corso Garibaldi, in attività nel 1904, vendeva anche cornici, specchi e oleografie; famoso è un suo ritratto a Giorgina Saffi che venne usato per cartoline.
Altri fotografi nella seconda metà dell’800: Brini e Mazzoni in Borgo Vittorio Emanuele negli anni ’60, lo Stabilimento Fotografico Studio di Pittura e lo Stabilimento Fotografico C. Zambianchi in piazza Vittorio Emanuele (cioè Saffi) nell’attuale Palazzo Talenti Framonti, Adolfo Masi in corso Vittorio Emanuele, Ferruccio Sorgato della famosa famiglia modenese di imprenditori fotografi, il Premiato Studio Fotografico di Amedeo Del Monte in corso Garibaldi, in attività nel 1904, vendeva anche cornici, specchi e oleografie; famoso è un suo ritratto a Giorgina Saffi che venne usato per cartoline.
In via Bufalini 15, lavorarono i fotografi Casali, poi Moschini e dal
1893 Augusto Roveri. Tra Otto e Novecento, Pietro Pettini che
esercita in corso Garibaldi, rileva lo studio di Augusto Roveri in
via Bufalini. La Fotografia Pettini una volta trasferita in piazza
del Duomo, avrà come titolare dal 1907 il proprio direttore Eugenio
Tartagni.
Nelle vecchie guide della città si trovano inserzioni pubblicitarie
relative all’attività dei vari fotografi: “Lo studio è aperto
dalle 9 ant. Alle 5 pom. di qualunque giorno” poiché la luce del
sole allora era fondamentale. C’era chi per lo stesso motivo
segnalava “Aperto tutti i giorni tranne quando piove”, con le
nuvole tutto si complicava e i tempi di posa aumentavano. Oppure
“Fotografia Istantanea bimbi e cavalli” per sottolineare
l’abilità nell’immortalare soggetti in movimento: rinunciare ai
ritratti dei bambini era una grossa perdita di guadagno, c’è chi
sostiene che tutti i ritratti di bimbi precedenti al 1860 siano post
mortem, perché restare immobili a lungo mantenendo la posizione
era impossibile.
La “Fotografia Milanese” di Guglielmo Limido dal 1908 in corso Mazzini, si avvaleva dell’artista Giovanni Marchini per i fondali dipinti. Quella che fu la sala di posa è visibile ancora oggi dal cortile interno dell’edificio adiacente alla chiesa del Carmine. Diverse sono le cartoline d’epoca raffiguranti corso Mazzini in cui in negozio con l’insegna “Fotografia Milanese” è chiaramente riconoscibile.
La “Fotografia Milanese” di Guglielmo Limido dal 1908 in corso Mazzini, si avvaleva dell’artista Giovanni Marchini per i fondali dipinti. Quella che fu la sala di posa è visibile ancora oggi dal cortile interno dell’edificio adiacente alla chiesa del Carmine. Diverse sono le cartoline d’epoca raffiguranti corso Mazzini in cui in negozio con l’insegna “Fotografia Milanese” è chiaramente riconoscibile.
Edgardo Zoli nel 1921 apre lo studio nella Palazzina Liberty con
torretta disegnata dall’architetto Emilio Rosetti in viale Bovio
n.4 (attuale viale Vittorio Veneto) nella sua carriera arriverà ad
avere fino a venti dipendenti. Si sposterà nel 1938 in largo De
Calboli, alla sua morte il negozio passerà al nipote Giancarlo. Ugo
Manuli, collaboratore di Zoli, documenterà con lui la città durante
il ventennio, Bruno Stefani dopo il 1925 si trasferirà a Milano dove
inizia un’importante carriera come fotografo del Touring Club.
La “Fotografia Forlivese” era gestita dai Fratelli Savoia. Il
padre Antonio, dopo aver lavorato in Francia aprì uno studio in
corso Garibaldi, i cinque figli si divideranno col passare degli anni
tra corso Garibaldi, corso della Repubblica e Cesena.
Corrado Celli dal 1918 nel Palazzo Pantoli che affacciava su piazza Saffi prima di venire demolito per lasciare spazio al nuovo Palazzo delle Poste. Un grande ritratto del tenore Masini realizzato da Celli è esposto al Museo de Teatro di Palazzo Gaddi, un’altra curiosità è che il pittore Maceo Casadei lavorò come ritoccatore di lastre alla Fotografia Celli.
Possiamo continuare nominando Antonio Dondi con “Fotolampo”, attivo dal 1916 in via Giordano Bruno, Duilio Zanelli, O.Bertaccini, Ambrogio Radice, Vittorio Monti, Adrasto Miserocchi, Gallucci e Tamagni che intorno al 1922 aprirono la Fototecnica Emiliana specializzandosi nella fotoceramica…
Col passare dei decenni la fotografia non fu più un lusso esclusivo
ma diventò alla portata di tutti, ad esempio con i ritratti su foto
cartolina da poter spedire e regalare che venivano stampati in più
copie per amici e parenti. Tantissimo c’è ancora da scoprire, nei
musei, nelle biblioteche, nei fondi pubblici e privati. E
soprattutto, dentro i cassetti di casa, o in scatole dimenticate che
tante sorprese continuano a riservare.
Un
tuffo da campione dalla Forlì anni Venti
In Italia si iniziò a parlare di tuffi nel 1895, allora come pratica
sportiva era più conosciuta come “salti in acqua”.
Poi prenderanno piede le prime competizioni: si parla di “salti
girati”, “capofitti non girati”, e più tardi di “capovolte
avanti e indietro”, “capovolta e mezza”, “due capovolte e
mezza”, “verticali e capovolta”, “auerbach con e senza giro”.
Se fino ad allora la pratica era cosa milanese, o presente a gare
internazionali, nel 1919 i tuffi approdarono a Roma.
Qui s'innesta la storia di un romagnolo riservato. Mi si conceda di
parlare di un parente che chi scrive non ha mai conosciuto di
persona. In quel 1919, infatti, un forlivese: Raniero Pasqui, tra le
13 e le 14 si allenava saltando nel Tevere, servendosi di trampolini
da lui stesso collocati perché negli altri orari servivano da
passerelle per l'accesso al Circolo Romana Nuoto. Informazioni tratte
da “Alla ricerca del nuoto perduto” di Aronne Anghilieri (Sep,
2002) indicano che:
“Il Tevere è invece il motore dello sviluppo dei tuffi. I pionieri
a Roma furono Gaetano Lanzi e Raniero Pasqui, poi campione italiano
dal trampolino. Senza piscine, senza trampolini elastici, nel 1919 la
Romana Nuoto inizia l’attività di tuffi allo Scalo De Pinedo,
distante 500 metri dalla sede dalla società. Lanzi e Pasqui nella
pausa pranzo prendevano in spalla due tavole di abete (90 Kg),
accompagnate da traversine larghe 40 o 45 cm che durante il giorno
servivano da passerella per l’accesso in società”.
Chi era Raniero Pasqui e cosa ci faceva a Roma? Secondogenito di
Emanuele e di Virginia Rusticali nacque a Forlì all'alba di
mercoledì 30 marzo 1887: fu battezzato coi nomi Raniero Angelo
Melchiorre. Talora, nei documenti sportivi, viene erroneamente
indicato col nome di “Ranieri”. Dopo aver conseguito il diploma
di perito industriale, partì da Forlì alla volta di Roma. Nel 1907
fa vita militare. Nel 1912, scrivendo al padre, menziona una
“fotografia che ho fatto al Porto Fluviale e in cui si vede ch'io
sto bene”. Quindi è probabile che a quel tempo si fosse già
“buttato” nei “salti in acqua”.
Il forlivese lo si ritrova anche canottiere: il 12 agosto 1917
accompagnava, vogando, l'onorevole Leonida Bissolati per seguire dal
Tevere la gara di nuoto “Traversata di Roma”. Proprio da
quell'estate iniziò a esibirsi con tuffi acrobatici nel grande fiume
che collega la provincia forlivese alla capitale italiana. Fu
apprezzato per la particolare grazia “aerea” unita a una fisicità
poderosa.
Da allora si distinse in un crescendo di prove sportive fino a
laurearsi, a Firenze, campione italiano di tuffi nel 1920.
Quale membro della Romana Nuoto, eccelse in vari campionati italiani
nel 1921 (prima medaglia d'oro dal trampolino da 3 metri), nel 1923
si assicurò un terzo posto e nel 1924 un argento. Seguirono poi
altri riconoscimenti. Per i primi anni venti, la parola tuffi si
traduceva in tre nomi: Gaetano Lanzi, Guido Granata, Raniero Pasqui.
Tutti e tre chiamati “romani”, anche se il terzo era di evidenti
origini romagnole.
Visse per lo più a Roma. Nella capitale lavorava come disegnatore
civile e poi, durante la seconda guerra mondiale, militarizzato per
l’aeronautica militare.
Il 6 luglio 1924, infatti, fu assunto in ruolo tra il personale
tecnico del genio aeronautico a Guidonia. Raniero condivise con i
suoi fratelli (rimasti a Forlì) alcune delle sue grandi passioni:
per il nuoto (con Giuseppe), per la caccia e per i cani (con
Domenico).
La sua fedele bracca di nome Dora, infatti, era sempre con lui. Dopo
la guerra, quale apprezzato disegnatore, Pasqui proseguì a Roma la
sua collaborazione con l’aeronautica militare e nonostante la lunga
permanenza nella capitale la sua inflessione linguistica non tradì
mai la tipica cadenza romagnola; anzi, aggiungendola al romanesco, la
pronuncia assunse un accento neutro e gradevole all’ascolto.
Rimasto celibe e collocato a riposo, ritornò nella sua Forlì.
Colpito da una grave malattia, passò gli ultimi giorni a Bagnolo per
essere assistito dalla sorella Rosa, maestra elementare.
Morì nel mattino dell'8 marzo 1967 dopo aver vissuto poco meno di
ottant'anni. Il nome del Cavalier Raniero Pasqui è scolpito tra i
soci benemeriti della “Dam una mân”, come si può leggere in una
lapide di piazza XC Pacifici.
Quando
era di moda bere il liquore con la coca
Il titolo può far strabuzzare gli occhi, ma a Forlì, nel 1871 fu
premiato un Elixir Coca, bevanda che così consacrò i suoi primi
successi. Non era una novità, s'inseriva in un solco che fu poi
abbandonato quando ci si renderà conto che l'estratto di foglie
sudamericane è più che altro tossico. L'Elixir non era presentato
da un Dulcamara qualsiasi, ma da farmacisti. Come poi avverrà per
una bevanda gasata ancora di successo che anni dopo nascerà negli
Stati Uniti; essa sostituirà l'alcol con la noce di Cola. Eppure
l'entusiasmo dei forlivesi, allora, fu alle stelle.
Era l’ottobre del 1871 quando a Forlì fu inaugurata un’Esposizione
agraria, industriale e di belle arti. In essa pare convogliata una
certa smania di fare dei romagnoli, spesso con mezzi assai limitati e
di fortuna, sempre appassionati di “macchine”, di novità o di
cose che destano stupore. La fiera si svolse nel palazzo della
Missione (sede attuale della Provincia, in piazza Morgagni): per
accedervi occorreva il biglietto da una lira, prezzo che poi fu
ridotto a cinquanta centesimi. Si può ripercorrere la cronaca delle
due settimane autunnali nel “Giornale dell’Esposizione” con
redazione diretta da Bartolommeo Fiani ed edito da Febo Gherardi. I
vini e altre bevande la facevano da padrone.
Una delle “menzioni onorevoli”, infatti, fu dedicata al liquore
oggi di moda, che si estrae da un arbusto chiamato Coca che nasce e
vegeta nelle province centrali d’America. L’Elixir Coca è
descritto come gradevole e ristoratore della forza, perché vuolsi
che agisca su i nervi della vita organica, sul cervello e sul midollo
spinale. All’Esposizione, tale liquore fu esposto da Giacobini di
Fano, Fabbri di Lugo, Giovanni Giorgi, tutti farmacisti e
distillatori e da Giovanni Buton di Bologna. Tra queste differenti
versioni, si sa che la “Coca Buton”, di colore verde brillante,
ebbe un certo successo anche nel Novecento. Successo derivato dal
fatto che poi la ricetta cambiò per stemperare l'effetto
dell'alcaloide proibito. Vi sono foto che testimoniano affissioni di
suoi manifesti sui muri prospicienti ai Caffé forlivesi.
Sorte diversa accadde al Vin Mariani, apprezzato e bevuto fin dal
1863: il miscuglio tra vino e coca nacque come ricostituente per
depressi con risultati oltre le aspettative. C'è chi gli attribuiva
proprietà addirittura afrodisiache ed ebbe numerosi premi ed
estimatori tra i potenti della Terra.
Alla fine dell'Ottocento si constatò la dipendenza della coca e dei
suoi derivati, così sparì del tutto il Vin Mariani mentre l'Elixir
Coca Buton fu “corretto” attenuando il principio attivo. Sicché
rimase un noto liquore per i primi decenni del ventesimo secolo
finché, dopo la seconda guerra mondiale, cambiarono i gusti e i
liquori dolci come l'Elixir cedettero il passo ai vari whisky,
brandy, vodka, gin.
Molte cose riempirono, per l'occasione, il palazzo della Missione.
Va da sé che il primo effetto del visitatore era la confusione delle
idee e l’offuscamento della memoria. Forse anche per il troppo
vino, o per il troppo "Elixir Coca".
Ci
vediamo al porto di Forlì
In attesa che l'aeroporto “decolli”, c'è tempo per ricordare una
storia che avrebbe potuto rappresentare una svolta per le
infrastrutture forlivesi. Nell'esiguo spazio tra Forlì e Ravenna il
collegamento su gomma è all'antica, non si deve dimenticare la
scelta (che si potrebbe rimettere in campo) di unire i due capoluoghi
con un tram, una sorta di lenta metropolitana di superficie che, sino
al 1930, arrivava fino a Meldola. Scartata la via ferrata, rimasti al
palo progetti più veloci su gomma (c'era perfino un'ipotesi
autostradale Forlì-mare targata Ventennio), la città mantiene con
la costa collegamenti sicuramente migliorabili.
Eppure, fu tentata a più riprese (e probabilmente anche usata), la
via dell'acqua. Ci furono guerre per contendersi Cervia e il suo
sale, ma poi la città mercuriale non riuscirà ad avere un suo
sbocco sul mare.
Forlì aveva un porto?
Vediamo alcune ipotesi: i corsi d'acqua di Forlì sono principalmente
tre: Montone, Rabbi e Bidente-Ronco.
Tralasciando quest'ultimo, che limita zone periferiche, i primi due
si uniscono sotto l'ospedale e proseguono mantenendo il nome del
primo. Con una cartina geografica si vedrà che il fiume sembra
puntare verso il centro, quindi “accarezza” viale Salinatore per
dividere i Romiti da Schiavonia. Nel frattempo, una rete di canali da
via Firenze e da viale dell'Appennino costeggia i fiumi. Questa è
una spiegazione molto semplificata, ma vale giusto da introduzione.
Alluvioni, portata incostante, hanno reso complessa l'interpretazione
storica dei corsi d'acqua del forlivese, tuttavia occorre immaginarsi
una Livia antica tra paludi, isole, e anse ormai inesistenti.
Il Rabbi era chiamato Acquaviva perché tanto ricco e pulito da
rendere Forlì tappa obbligatoria dei pellegrini verso Roma. Secondo
le antiche cronache, il fiume attraversava Schiavonia e passava sotto
il ponte dei Morattini, un tempo davanti alla chiesa della Trinità.
Il ponte a schiena d'asino fu atterrato nel 1851: si sollevava di
sedici metri e ciò fa intendere quanto importante fosse il corso
d'acqua ora invisibile. Allora era detto ponte dei Bogheri (termine
che intende, come “boa”, qualcosa che ha a che fare col gergo
marinaresco), e ciò potrebbe essere una prova che il fiume urbano
fosse navigabile. Che lì sotto ci fosse un punto di attracco per i
pellegrini che così raggiungevano Forlì da Ravenna? In questa città
irriconoscibile, quindi, ci sarebbe un fiume navigabile che passa
proprio dentro il centro, lambendo l'antico Forum di romana memoria.
Perché qui si cammina tra supposizioni e non ci sono documenti? Una
delle ipotesi (già questa, di per sé, suggestiva) è data dal fatto
che questo scalo sarebbe stato controllato dai Templari. Sciolto
l'Ordine, sparì anche la carta. Non si sa dunque se effettivamente
in piazza Melozzo ci sia mai stato un porto, ma non sembra
un'asserzione tanto campata per aria.
Un fiume entrava in città anche da porta Ravaldino (più o meno sul
tracciato dell'ormai invisibile canale) e bagnava il Campo dell'Abate
(piazza Saffi). Sopra di esso oggi c'è il loggiato del Municipio. La
pendenza di piazza XC Pacifici testimonia l'antico argine. Si
conoscono due ponti importanti: quello sotto il “Rialto piazza”,
cioè l'inizio di corso Garibaldi (Rialto, appunto, ha un che di
veneziano), detto “del Pane” un passaggio di circa venticinque
metri a tre arcate, con sopra le botteghe dei fornai. E, nel
principio di via delle Torri, si alzava il ponte “dei Cavalieri”,
composto da due arcate di oltre otto metri di luce ciascuna.
Quindi il corso si fa complesso, e ciò che rimane toccava comunque
le perdute chiese di San Pietro in Scottis (dei pellegrini scozzesi),
ospizi e lazzaretti, inoltrandosi verso corso Mazzini per poi
sterzare verso la torre Numai e piazza delle Erbe.
Esce dalla città alla Grata, più o meno in viale Italia e poi
prosegue con altre tortuosità verso Coccolia, dove si butta nel
Ronco.
I fiumi (o il fiume) urbani furono deviati e canalizzati già in
tempi antichi, pertanto la storia è confusa. Nel Novecento,
purtroppo, pressoché ogni traccia di acqua corrente fu nascosta
sotto l'asfalto e Forlì perse magari qualche ratto, ma molti scorci
pittoreschi.
Un estremo tentativo di dare a Forlì un porto risale al 1764. Allora
si predispose un piano per dotare la città di un canale naviglio che
avrebbe avuto la darsena alla Grata (tra San Biagio e viale Italia)
per poi proseguire allargando e approfondendo il canale di Ravaldino
verso Coccolia, lì sarebbe confluito nel Ronco per sfociare nel
mare. Ma ben presto, come altre volte nella storia di Forlì, arrivò
la frase implacabile: “Mancano i soldi”.
I
venti castelli di Forlì
Non le è bastato avere “gli occhi belli”: fece comunque una
brutta fine. Eulalia Torricelli da Forlì è la bella proprietaria di
tre castelli: uno “per mangiare”, uno “per dormire”, e
l'ultimo “per amare De Rossi Giosuè”, una guardia forestale di
cui si era invaghita. Il testo di Nicola Salerno, in arte Nisa, è
datato 1947. La ragazza, abbandonata dall'amato, si toglierà la vita
con gli zolfanelli (!), lasciando in eredità i tre castelli agli
autori del brano. Al di là di questa orecchiabile e triste vicenda
fittizia, narrata da una canzone che sta per compiere settant'anni,
la domanda che ci si pone è: quanti castelli ci sono a Forlì?
La risposta più comune potrebbe essere: “uno”, identificando con
la parola “castello” la Rocca di Ravaldino. Eppure, nel corso
della sua lunga storia, sul territorio del capoluogo romagnolo si
sarebbe succeduta una ventina di edifici difensivi.
E con “territorio” si esclude tutto ciò che è oltre i confini
comunali (come, per esempio, Monte Poggiolo, o la Rocca delle
Caminate), perché non si finirebbe di contare il numero di torri,
bastioni o avanzi di rocche che sono disseminati nell'Appennino, in
particolare sul confine, allora vicinissimo, tra Granducato di
Toscana e Stato Pontificio.
Se il numero “venti” sembra un'esagerazione, proviamo a fare
qualche indagine per capire ciò che resta.
Partiamo da Forlì città.
Secondo gli storici antichi, la città antica sarebbe sorta unendo
quattro castelli vicini: Castel Livio (di origini romane), Castello
Merlonia (a metà dell'attuale corso Diaz), Castello di San Martino
(vicino a via Maroncelli, dove c'è via San Martino) e un quarto nei
pressi dell'attuale via Castello. Erano anni in cui erano all'ordine
del giorno devastazioni e ricostruzioni, quindi dei quattro castelli,
oltre a toponimi, restano più che altro supposizioni. Fu grazie agli
Ordelaffi se la fisionomia urbana del centro diventa quella che è
oggi. La cerchia muraria si allarga fino a comprendere due rocche:
quella di Ravaldino e quella di San Pietro (dal lato opposto della
città, alla fine di corso Mazzini). La Rocca di San Pietro fu
atterrata nel Settecento, però rimase quasi intatta la porta omonima
fino a metà dell'Ottocento quando fu sostituita dalla Barriera che a
sua volta, dall'ultimo conflitto mondiale, non c'è più. Una
fotografia ritrae quest'ingresso, simile se non uguale alla bolognese
Porta San Felice. Attorno ad essa sorgeva una rocca semplice,
composta da un edificio squadrato e massiccio. Qui Caterina Sforza fu
rinchiusa coi figli dopo l'assassinio del marito Girolamo Riario. Nel
1862, un provvedimento di scarsa lungimiranza ordinò l'abbattimento
di ciò che rimaneva della rocchetta, cioè la Porta San Pietro.
Di successo, e quindi superstite, è la Rocca di Ravaldino. Di
origini misteriose come il nome, è il frutto di ripetuti
rimaneggiamenti tra il Trecento e il Quattrocento. La grande
cittadella nascondeva un palazzo sontuoso, denominato Paradiso,
giardini e una vasta piazza d'armi. Un fossato pieno d'acqua, ora in
secca, fungeva da ulteriore protezione. Due rivellini, uno dei quali
ancora esistente (oltre via della Rocca, nel giardino dell'Ausl),
estendevano la già amplissima dimensione della struttura. Cadde al
lungo assedio del Duca Valentino nel gennaio del 1500, quando tutta
la città ormai era Borgia.
Caterina Sforza si ostinava a resistere finché fu aperta una breccia
(coperta poi da un fregio) e la sua signoria ebbe termine.
Machiavelli aveva già avvertito che, come difesa, Ravaldino non
poteva essere una garanzia. Durante l'effimero governo Borgia, fu
affidato il restauro della rocca a Leonardo da Vinci: non si sa che
esito abbia avuto tale progetto.
Sono visibili, benché nascosti dal traffico, i resti della piccola
Rocca di Schiavonia, che oggi fa da “cornice” alla più recente
porta. I bastioni proteggevano la città dal pericoloso lato esposto
a Faenza.
Se si esce dalla città, la storia ricorda altri nomi di edifici
difensivi, identificati come “castelli” in senso lato. Dei più
rimane più che altro il nome, o qualche toponimo legato a case
coloniche, strade vicinali, località. Alcuni sono, poi, di difficile
collocazione: Carpineta, per esempio, già Castrum Carpeneti
costruito nel 1174 contro Castrocaro. O Come Casaficaria, nei pressi
di Vecchiazzano, venduto nel 1001 dall'Arcivescovo di Ravenna a tale
Erchenfredo.
Lavori agricoli hanno cancellato quel po' che rimaneva di
quest'antica struttura lungo l'attuale via Veclezio.
Castel Leone, nome che poi sarebbe mutato in Castiglione, è sempre
stato conteso tra Forlì e Faenza, oggi dà il nome alla frazione
collinare. Fu distrutto in una delle numerose guerre tra le due città
vicine nel 1201: era una forte rocca, simile a quella di Monte
Poggiolo, posta su un rilievo adibito poi a coltivazione.
Il vicino Castrum Pedrignoni, da cui Petrignone, era dei
Calboli ma fu conquistato dai fiorentini nel 1313 che lo atterrarono
definitivamente nel 1482. Sui suoi resti sarà poi costruita la
chiesa.
Castel Latino sarebbe stato costruito sugli avanzi di una fortezza
tardoromana fino al suo atterramento avvenuto nel Duecento.
Ha dato il nome alla frazione Ladino.
Di un certo rilievo sarebbe stato anche il Castrum Sancti Martini
in Strata, castello e mura bastionate costruiti nel Trecento dal
governo della Chiesa per tenere a bada i forlivesi. Oggi, a San
Martino in Strada, ci sono nomi di strade che ricordano la presenza
di quest'antico fortilizio sul Rabbi.
Non vi sarebbe traccia, a Roncadello, della piccola rocca chiamata,
appunto, Roccatella.
Di Loreta, poco si sa: è citato fino al 1371 ma non se ne conosce
l'esatta ubicazione, forse nei pressi di San Lorenzo in Noceto.
C'è un pure un Castello di Ravaldino in monte, citato fin dal 1154.
Fu per un certo periodo degli Ordelaffi, in particolare Antonio,
negli anni '30 del Quattrocento vi costruì una bellissima torre. Non
ne rimane niente, al suo posto ora c'è il cimitero della frazione
collinare.
Un nome suggestivo, quasi operistico, per il Castello di Belfiore
(zona via Monda), già menzionato nell'888 quando apparteneva ai
Berengari di Forlì. Ricostruito dagli Ordelaffi nel 1378 fu occupato
temporaneamente dai Malatesta per poi tornare ai forlivesi. A ben
cercare, qualche traccia di questo edificio esisterebbe ancora.
Anche Collina aveva il suo castello, posseduto dagli Orgogliosi già
nel secolo X. Distrutto dal 1236, è stato ingoiato dalla storia. È
possibile che si ergesse sulla sommità del rilievo in cui oggi si
trova la chiesa di Sant'Apollinare in Collina.
La Bastia di Ronco fu costruita nel 1358 da un Abate di Cluny. Sulla
struttura sorse poi la chiesa di Ronco.
I forlivesi eressero anche la Bastia di Poggio nel 1283 nell'omonima
frazione. Ebbe vita breve, già un secolo dopo era scomparsa.
In zona, è menzionato anche un Castel Lucio, distrutto dai faentini
nel 1235: sull'ubicazione ci sono ipotesi confuse, ad ogni modo
doveva trovarsi nei pressi del Castello di Barisano, o Castrum
Barigiani, noto perché vi soggiornò Matilde, moglie
dell'Imperatore Enrico V. Anche questo fu atterrato dai soliti
faentini nel 1235, se fino a tutto il Seicento i ruderi erano ben
visibili oggi è sparito. Era nei pressi della chiesa della frazione.
Questo lungo elenco fa capire quanto fosse "movimentata" la
storia del medioevo forlivese: ci sarebbero altri nomi, altre
vicende, ma il tempo passa e non tutto resta.
Si
alza il sipario sui teatri perduti
Una lunga tradizione teatrale caratterizza Forlì, città che ha
ospitato, nel corso della sua storia, sale di tutto rispetto. Qui si
cerca di capire quanti teatri siano esistiti nel capoluogo romagnolo.
Molti dei quali purtroppo perduti, alcuni progettati e mai costruiti.
Escludendo i cinema (scomparsi dal centro in brevissimo tempo), ci si
dedicherà esclusivamente alle sale che, nel corso della storia
forlivese, hanno dato sfogo al bisogno di prosa e opera dei
concittadini.
La vistosa lacuna di un teatro all'italiana, a ferro di cavallo e con
palchetti, è ancora insanabile. Eppure in città si sono susseguiti
numerosi luoghi di svago. Qui se ne citano alcuni, senza pretesa di
completezza, escludendo le piazze e i giardini in cui, da secoli,
sono sempre stati allestiti spettacoli o, come si direbbe adesso,
“eventi” a guisa di prova che i forlivesi sapevano godersi le
serate con spensieratezza ma anche con un certo buon gusto. Ciò è
anche testimoniato dal Museo Romagnolo del Teatro in palazzo Gaddi.
I teatri perduti
Il Teatro Comunale rappresenta una ricca parentesi della storia della
città tra il 1776 e il 1944. Non era di grandi dimensioni (ha
lasciato “l'impronta” sull'attuale piazza della Misura) e,
all'esterno, aveva un volto anonimo. L'interno, però, era decorato
da opere di Felice Giani e Pompeo Randi, tanto per citare qualche
nome noto. Il pubblico, suddiviso tra platea, tre ordini di palchi e
loggione, poteva assistere a melodrammi, spettacoli di prosa, comizi,
ma anche ad esperimenti pre-cinematografici fin dal 1890. Danneggiato
dall'ultima guerra, non fu mai più ricostruito, lasciando una lacuna
dolorosa nell'ambiente culturale della città. Inaugurato con
un'opera composta ad hoc, era particolarmente temuto dai cantanti per
il loggione piuttosto esigente e, per così dire, mordace.
L'Accademia dei Filodrammatici aveva una sua sala nel convento di San
Domenico dal 1809. Il teatro, progettato da Luigi Mirri, ospitava più
che altro commedie. Passata la tempesta napoleonica, nel 1817 il
convento (ora sede dei Musei civici) tornò all'ordine dei
Predicatori e la sala fu chiusa.
Altro caso è quello del Teatro Santarelli.
Nel 1835 il celebre medico Giovanni Geremè Santarelli finanziò la
costruzione di una sala con tre ordini di palchi e loggione accanto
alla basilica di Santa Maria dei Servi (San Pellegrino). Ebbe fama
per gli spettacoli carnascialeschi e marionettistici e la platea
poteva essere allagata per giochi d'acqua.
Il Teatro fu demolito nel 1870 per essere ricostruito nel 1905
rinominato Politeama Novelli o popolarmente Pestapevar.
Ebbe vita breve: nel 1914 il Comune reclamò l'area per costruire
l'attuale via Girolamo Mercuriali. Sicché fu abbattuto e oggi niente
lo ricorda. Negli ultimi anni era stato sede di spettacoli circensi e
fu anche un cinema.
L'area dello Sferisterio (oggi, ciò che resta, è ridotto a
parcheggio), struttura del 1824, occasionalmente divenne Teatro
Diurno aperto a compagnie di basso livello e particolarmente gradito
ai ceti meno abbienti. Fu luogo anche per ascensioni di palloni
aerostatici.
Demolita anche l'Arena Fabbri, attiva tra il 1880 e il 1892 con
galleria e palchi in legno per feste da ballo e rappresentazioni
teatrali. Si trovava in Borgo Vittorio Emanuele (corso della
Repubblica) e contava quasi duemila posti numerati. Vi si
rappresentavano spettacoli di vario genere, dall'opera lirica alle
commedie di Goldoni, nonché Zola e Ibsen. Sull'area fu poi costruita
la fabbrica Becchi.
La storia della città ricorda anche un effimero Teatro Zanuccoli,
esistente tra il 1875 e il 1879 nell'area dell'antica chiesa di
Sant'Antonio dei Battuti Celestini, soppressa in epoca napoleonica.
Era un teatro per spettacoli comici e musicali ma venne presto
demolito per ripristinare lo spazio a chiesa, quella che oggi è
dedicata a San Francesco ed è in corso Garibaldi.
In via Giuditta Tavani Arquati esisteva il Teatro della Casa del
Soldato, attivo soprattutto negli anni della Grande Guerra.
Sulla stessa strada c'era il Teatro Esperia, poi cinema (demolito nel
1997): aprì i battenti nel 1926 e aveva una platea con vasta
galleria in cemento armato e due balconate laterali. Decorato da
Mario Camporesi, recava una coppia di pavoni come motivo dominante e
un prezioso lampadario in ferro battuto. L'allestimento originale fu
cancellato dai restauri del 1954 mentre l'ultimo riadattamento che lo
rese cinema da 750 posti reca la data del 1976.
Tra il 1935 e il 1982 esisteva anche un'Arena Esperia da 300 posti
ove, all'aperto, vennero eseguite anche opere liriche; era annessa
all'omonimo Teatro.
Il 1913, nei locali già adibiti a chiesa (Santa Febronia, corso
Garibaldi), aprì i battenti la Bella Pescatorina (poi Cinema
Popolare), sala da ballo su pianta ellittica.
In piazza delle Erbe esisteva un Teatro delle Varietà, situato nel
Foro Annonario e attivo dal 1886. Già prima, in questo spazio, si
esibivano spettacoli con bestie feroci.
Altro non era che un baraccone ligneo ornato da dipinti nell'atrio
del “mercato coperto”, fu poi sostituito dal Pestapevar di
piazza XX Settembre.
In piazza XX settembre, nel 1893, infatti, fu inaugurato il
Padiglione del Pestapevar, sala con due ordini di palchi e due
gallerie in legno. Tra feste da ballo, luce elettrica, operette e
feste, fu un luogo particolarmente vivo, tanto che il palco scenico
poteva abbassarsi fino ad ampliare la sala. In cartellone ospiti
celebri, tra cui Fregoli e anche teatro “impegnato” (Amleto,
Otello), balli e opera (Rigoletto). Ciò che restava della sala fu
demolito nel 1939; ora al suo posto c'è un moderno palazzo sede, tra
l'altro, di una banca.
Non lontano esisteva un Teatro dell'Agrumaia, collocato lungo il
corridoio superiore del chiostro di San Mercuriale. Iniziò la
programmazione nel 1888 risultando particolarmente frequentato: si
ricorda che il telone era decorato con un grande disegno della piazza
Maggiore come doveva essere nel Medioevo.
Il Teatro Romagna di via Episcopio Vecchio, nel 1956 conteneva quasi
settecento posti per comizi e assemblee poi fu ridotto a Cinema Ciak
abbandonato e crollato nel 2008.
Ora rimane un inquietante “scheletro” a pochi metri da via
Maroncelli.
I “superstiti”
Nel 1893 fu inaugurato il Teatro San Luigi, ancora esistente non
lontano da San Biagio. Fu proprio su questo palco che Diego Fabbri
iniziò le sue esperienze teatrali. Fu anche chiamato Cinema Italia
dal dopoguerra. Ristrutturato nel 1965 e chiuso nel 1979, oggi rivive
come sala teatrale grazie alla presenza dei salesiani.
Su ispirazione delle sale austriache, nel 1914 venne aperto il
Kursaal. Con lo scoppio della guerra, per non suonare troppo
“tedesco”, prese il nome di Teatro Apollo, così è chiamata
tuttora la graziosa sala con due gallerie in via Mentana. Vi si
tennero feste da ballo, concerti, spettacoli di varietà, operette e
proiezioni cinematografiche. Con una capienza massima di 400 posti,
fu poi “raddoppiato” con un'altra sala (ora non più esistente)
negli anni '80. Il proprietario dell'Apollo, Leonida Vallicelli, nel
1918 aprì l'Arena forlivese, anfiteatro in via Giorgio Regnoli con
ampio palcoscenico in muratura e vasta platea un tempo pavimentata
con mattonelle esagonali. L'elegante spazio aperto, capace anche di
1200 posti, ospitò spettacoli lirici e “leggeri” fino a chiudere
i cancelli negli anni Sessanta. Poi è stato riaperto in sporadiche
occasioni.
Esiste ancora quello che era il Teatro Mazzini (sala con balconata
sopra il vecchio Cinema Mazzini di corso della Repubblica) già
spazio dei magazzini oleari e granari dello Stato Pontificio: assunse
l'aspetto attuale grazie al progetto di Emilio Rosetti. Luogo legato
agli “Amici dell'Arte”, fu sede di spettacoli lirici, vocali e
strumentali dagli anni successivi alla fine della Grande Guerra.
Negli ultimi tempi è stato utilizzato dall'Università.
L'ingegnere Cesare Valle disegnò il Teatro Casa del Balilla, platea
con galleria del 1936 nell'ex palazzo Gil di viale della Libertà. Il
cinema teatro, aperto fino a dieci anni fa col nome Odeon e in attesa
di una sua riutilizzazione dopo il restauro che ha interessato tutto
il complesso, è capace di 800 posti e una platea di circa 30 metri
quadrati.
Nel Dopoguerra fu usato il Salone Municipale, altrimenti detto
Auditorium Comunale, dove furono collocate le stesse poltrone azzurre
del Teatro Comunale andato distrutto. La sala svolse quindi la
funzione di teatro provvisorio; anticamente pare che avesse avuto le
stesse funzioni.
In corso Diaz, in luogo del palazzo Brandolini Dall'Aste distrutto da
un bombardamento, si ergeva la discutibile facciata giallina del
Teatro Astra inaugurato nel 1947, sede di concerti e spettacoli di
vario genere. Divenuto di proprietà comunale, prese il nome di Diego
Fabbri, completamente ricostruito nel 2000 secondo le forme attuali:
con i suoi 550 posti in platea e i 160 in galleria, è attualmente il
teatro più importante della città.
Altri spazi, altri tempi
I cortili e gli spazi di numerosi palazzi, tra cui quello Pasquali
(in via Caterina Sforza), quello Merlini (in via Maroncelli), quello
Guarini Benzi (via dei Mille), Paulucci di Calboli Barone (via
Maroncelli), Orsi Mangelli (corso Diaz), Piazza Paulucci (l'attuale
Prefettura), Gaddi (corso Garibaldi), Albertini (piazza Saffi),
Albicini (corso Garibaldi), Manzoni (corso Garibaldi), furono sede di
filodrammatiche e di spettacoli teatrali di vario genere. Lo stesso
avvenne per numerose sale parrocchiali e avviene anche in tempi
recenti.
Sant'Antonio Vecchio (in corso Diaz) divenne teatro col nome bizzarro
de La Gran Bretagna. Fu specialmente sala da ballo nella seconda metà
dell'Ottocento.
Bastava un semplice palco con sedie per allestire uno spettacolo
lirico nell'Arena del Palazzo delle Esposizioni, collocato nell'area
retrostante del già collegio aeronautico Bruno Mussolini. La platea,
attiva specialmente negli anni '50, poteva contenere più di tremila
spettatori.
Più vicine nel tempo sono le numerose “sale polivalenti” o spazi
come la Fabbrica delle Candele che recentemente hanno rilanciato
attività giovanili e professionali che si spera abbiano continuità
come è capitato al Teatro dell'Arca – Testori (dal 1977) e Il
Piccolo (dal 1981). Tuttavia si tratta di strutture prive della
“grazia” e degli abbellimenti decorativi tipici del tardo
Ottocento. Il Palafiera (inaugurato nel 1987) è stato sede di eventi
diversi da quelli sportivi, con l'auspicio che questi aumentino, come
accade nelle città vicine. Non è passata inosservata la riapertura
dell'antica chiesa di San Giacomo, spogliata da Napoleone e dallo
Stato unitario, parzialmente rovinata dall'incuria, resa ai forlivesi
dopo un importante restauro solo nel 2015 come sala per concerti e
iniziative di vario genere. Non pochi, poi, sono i progetti per
teatri mai costruiti, già dagli anni Dieci in cui si auspicava un
Politeama, alle grandi opere previste dal Ventennio e poi arrestate
dalla Guerra. Così, della vasta sala in piazza Saffi, o del grande
auditorium nei giardini pubblici, non se n'è fatto nulla.
E purtroppo la ricostruzione “com'era dov'era” del Teatro
Comunale settecentesco è rimasta lettera morta.
Si era accennato al Museo Romagnolo del Teatro: anche qui, con un
allestimento un po' più vicino alla sensibilità contemporanea, una
sua valorizzazione migliore, una fruibilità più semplice, si
mostrerebbe per quello che è: una gemma che, per ora, risulta
impolverata.
Forlì
vs Bologna: arbitraggio all'inglese (o quasi)
Chi abita dalle parti di corso Mazzini dovrebbe sapere di vivere nel
Rione San Pietro. Se cerca una chiesa o qualcosa riferito a San
Pietro che giustifichi il nome del cantone, oggi non troverà nulla.
Eppure l'origine deriva da San Pietro degli Scotti o in Scottis, o in
Scotto. Uno dei tanti luoghi di culto che non ha lasciato traccia:
doveva essere sul corso, nel lato opposto del Carmine, poco più
verso la piazza. Secondo alcuni, anche da lì passava un fiume: se
n'è già parlato e ci sono teorie contrastanti. Fondata (forse) da
monaci scozzesi (o irlandesi, che per allora era la stessa cosa), la
chiesa fu sicuramente ricetto per genti del nord Europa in
pellegrinaggio verso Roma. Si trattava di una chiesa antica e
importante già nel nono secolo. Soppressa la parrocchia nel 1464,
rimase sede di una confraternita e di un vicino ospedale. Poi arrivò
Napoleone e divenne un magazzino, una conceria, fino a sparire del
tutto.
Scotti, infatti, è un nome antico per definire gli scozzesi
(qualcuno ricorderà, nelle vecchie cartine della tarda romanità,
che oltre al vallo d'Adriano c'erano i Pitti e gli Scotti). Quindi la
chiesa, nel versante “verso il mare” della città, era meta di
pellegrini scozzesi che forse vi pervenivano, come scritto in
un'altra puntata di questa rubrica, attraverso vie d'acqua.
Nei pressi della chiesa, era stato eretto un Ospizio dei Pellegrini
aperto anche ai viandanti.
La struttura, tra alterne chiusure, riaperture, cambi di
destinazione, resistette fino all'Ottocento, quando l'ospite non
poteva trattenersi più di 24 ore: avrebbe avuto un pasto e due
refezioni, un paio di scarpe e mezzi di trasporto.
Ma a proposito di Regno Unito, si deve ricordare che Edoardo
d'Inghilterra tentò invano di sedare una delle ennesime tensioni tra
bolognesi e forlivesi. Dove? A Forlì. Il Duecento romagnolo è un
secolo complesso e non è sede, questa, per approfondirlo.
Si può solo dire che i bolognesi hanno sempre amato influire, con
ingerenze varie, sui forlivesi.
Questi, quando la misura fu colma, rifiutarono il podestà felsineo
ed affidarono la carica a Tarlato dei Tarlati (nome suggestivo),
ghibellino.
Ciò provocò la reazione di Bologna che volle far capire a Forlì
chi comandava, inviando un'ambasceria convincente. Forlì non poteva
essere “bolognese” (cioè papista) perché l'Imperatore Federico
aveva accordato ad essa una certa autonomia sigillata dall'aquila
sveva che ancora oggi fregia la città.
La pentola a pressione tra guelfi e ghibellini stava per scoppiare:
Bologna mandò un esercito verso Forlì accampandosi alle porte della
città per sei settimane. Era il 1273.
Si trova nel bel mezzo di questa vicenda intricatissima Edoardo I
d'Inghilterra che veniva d'oltremare (quindi anche lui per “via
d'acqua”?): era detto “Gambelunghe” o “Martello degli Scotti”
(e si torna alla San Pietro forlivese). Il sovrano Plantageneto,
rientrando dalla Terra Santa, appena ebbe saputo della morte del
padre, accelerò la sua marcia di avvicinamento verso Londra. Una
tappa fu, appunto, Forlì.
E qui dimostrò per la prima volta le sue doti di Re, esercitando la
sua autorità su due popoli così riottosi come i forlivesi e i
bolognesi. Chi la spuntò? Il Monarca inglese tornò a casa
allargando le braccia, con le pive nel sacco.
Per colpa dei forlivesi? No. Per colpa dei bolognesi? In parte.
Erano, costoro, divisi nelle solite fazioni: i Geremei, guelfi, non
potevano vedere i Lamberti, ghibellini. Questi ultimi si erano
schierati a fianco dei forlivesi. I Geremei, offesi dal comportamento
dei loro concittadini, se ne tornarono sotto le due torri rendendo
vana la trattativa del Re; sicché i bolognesi furono apostrofati
come “manigoldi, vili, codardi” dagli Ordelaffi.
I
forlivesi colorati e la salamandra gigante
Come si diceva welfare prima che la parola anglosassone
inquinasse il nostro vocabolario comune? “Benessere” o “politiche
sociali”, o “previdenza sociale”, termini che sono stati
purtroppo cancellati una decina d'anni fa da chi siede sugli scranni
di chi può. E prima ancora? Beh, più che pensare alle parole si
guardava ai fatti. Ecco, il welfare forlivese per mezzo
millennio fu retto dalle confraternite dei Battuti.
Ispirati alla devozione mariana, a poco a poco, fin dal Duecento,
alcuni laici si associarono individuando quali fossero i bisogni dei
cittadini: sostenere i poveri, curare gli infermi, accudire gli
orfani, provvedere per i meno abbienti. Ecco, in linea con le sette
opere di misericordia corporale, per oltre cinque secoli agivano dei
forlivesi laboriosi, volonterosi e devoti.
Presero il nome di Battuti per l'usanza, poi abbandonata, di
percuotersi durante le processioni. Furono chiamati così fino a
tutto il Settecento, perpetuando l'afflizione sublimata con la
vocazione caritativa.
Come accadeva anche altrove, in Italia, le confraternite erano dotate
di un proprio statuto e amministrate da un priore eletto a scrutinio
segreto, i laici erano affiancati da un sacerdote per l'assistenza
spirituale. Il priore dirigeva l'ospedale ed era il responsabile dei
beni sociali, il massaro (spesso erano in coppia) relazionava sul
bilancio ogni due mesi ai confratelli. Le elezioni si svolgevano il
21 dicembre (giorno di San Tommaso) e la dirigenza così poteva
insediarsi per l'anno sociale che iniziava il 1° gennaio. Ad
acclamazione si sceglievano i guardiani (solitamente dodici) che
svolgevano il ruolo di amministratori. Il voto veniva preceduto dal
suono della campana della chiesa di pertinenza e si svolgeva presso
l'altare con spirito religioso.
In altre città, dal basso medioevo fino all'aurora dell'età
contemporanea erano attive confraternite simili; caratteristica di
quelle forlivesi, almeno di quelle chiamate “Battuti”, è che
sono già presenti nel 1252, quindi precedono il movimento dei
flagellanti fondato dall'eremita francescano Raniero Fasani.
E poi ce n'erano ben sei, con colori diversi (Bianchi, Bigi,
Celestini o Turchini, Neri, Rossi, Verdi): ognuna di queste sei aveva
un proprio ospedale e una propria chiesa. Per "ospedale"
s'intende un luogo coperto, con refettorio e una decina di posti
letto, e l'assistenza di uno o più medici. A metà del Cinquecento,
i diversi ospedali confluirono nella Casa di Dio (quello che poi sarà
il “Palazzo del Merenda”, ospedale fino ai primi anni del
Novecento e destinato ora a sede della biblioteca). Presenti con
costumi pittoreschi alle grandi processioni (come per il Corpus
Domini, nel 1485), furono il motore di iniziative solidali: vi
facevano parte le famiglie dei maggiorenti ma anche gente comune, in
genere, ogni confraternita aveva un centinaio di iscritti attivi.
La celebrazione più grandiosa cui presero parte i Battuti fu nel
1636, anno in cui la città fu decorata con architetture lignee,
archi e solcata da carri allegorici suggestivi. Il 20 ottobre di
quell'anno, infatti, l'Immagine della Madonna del Fuoco fu traslata
nella cappella ov'è ora. L'evento fu celebrato con solenni apparati
tra cui le “macchine” dei Battuti. Una di esse era la
“salamandra” (anfibio che, per gli antichi, era ignifugo) sotto
le sembianze di un enorme varano. Stavano arrivando i Battuti Rossi
con quel bizzarro carro allegorico che, muovendosi lentamente e in
modo assai naturale, destò un forte stupore tra la gente.
I Battuti Rossi recavano nello stendardo l’immagine della Madonna
del Fuoco tra le fiamme a cui San Michele, prostrato a terra, porge
la città di Forlì. Erano, forse, i più numerosi e venivano
considerati i fedelissimi della Madonna del Fuoco. Si occupavano di
cura e accoglienza e avevano sede nella chiesa di San Michele in via
dei Mille, oggi detta anche del Buon Pastore.
Lì era anche il loro ospedale.
I Battuti Verdi avevano, nello stendardo, l’effigie di Maria col
Bambino che calpesta un grande drago da lei colpito da un fulmine di
fuoco. La loro missione era accogliere pellegrini e viandanti, curare
gli infermi nell'ospedale ubicato presso la chiesa di Santa Maria
della Neve (ora scomparsa) un tempo in via Battuti Verdi.
Nel 1636 portarono la grandiosa “macchina di Sant'Elmo”, nave
allegorica guidata da San Mercuriale e San Valeriano.
I Battuti Celestini (o Turchini), nello stendardo, recavano
l’immagine di Sant’Antonio Abate in ginocchio davanti alla Beata
Vergine assisa in un seggio di nuvole. Loro compito era quello di
insegnare un’arte alle zitelle e recuperare per loro una rilevante
dote in denaro. Inoltre, si adopravano per istruire gratuitamente i
fanciulli. Avevano sede nella chiesa di Sant’Antonio Abate, ora
intitolata a San Francesco e situata in corso Garibaldi. Poi si
trasferirono nella scomparsa chiesa di San Bernardo, presso il ponte
dei Morattini (davanti alla chiesa della Trinità) e alcuni Ordelaffi
ne fecero parte.
I Battuti Neri, detta anche Compagnia della Morte o del Corpo di
Cristo, avevano uno stendardo nero con il Salvatore resuscitato che
calpesta la morte. La loro opera fu importantissima per la città:
prelevavano e seppellivano i cadaveri dei giustiziati, degli
assassinati per le vie, dei forestieri. A loro appartenne l’attuale
chiesa del Corpus Domini in piazza Ordelaffi. Furono loro a
seppellire la gran copia di morti del “sanguinoso mucchio” nel
1282.
I Battuti Bigi portavano uno stendardo con San Pietro in atto di
leggere un libro. Loro compito era l’ospitalità e la cura gratuita
dei pellegrini, delle donne prive di mezzi e dei mendicanti. Avevano
sede nella chiesa di San Pietro dei Bigi nella “vigna dell'abate”
(di San Mercuriale) tra le vie Nullo e Maceri. Non ne rimane più
nulla, se non un isolato del centro da rivedere completamente. Nel
1636 conducevano un carro spettacolare che raffigurava una selva con
l'arca di Noè e il monte Oreb con Mosè.
I Battuti Bianchi erano i più aristocratici, sul loro stendardo
campeggiava San Sebastiano trafitto dalle frecce. La confraternita
aiutava orfani e orfanelle ed erano sostenuti nientemeno che da
Caterina Sforza. Avevano sede nell’oratorio di San Sebastiano, a
due passi dalla grande chiesa dedicata a San Domenico. Dalla fine del
Quattrocento si occupavano anche dei “poveri vergognosi”, cioè
dei ricchi caduti in disgrazia e che, ormai in miseria, si
vergognavano di chiedere sovvenzioni.
Nella loro lunga storia, queste congregazioni cambiarono
destinazione, usanze, sedi fino a scomparire per sempre alla fine del
Settecento, anch'esse subirono il colpo dell'occupazione francese.
Da
Stoccolma a Forlì: la tappa di una Regina
Cristina di Svezia, regnante nella prima metà del Seicento, fu una
donna dalla storia particolarmente interessante, complessa,
anticonformista. Dopo aver reso Stoccolma l'Atene del nord, si
convertì al cattolicesimo e, per questo e altri motivi, abdicò nel
1654. Nel viaggio d'esilio che l'avrebbe portata a Roma, passò da
Forlì e qui le cronache del tempo si prodigano di particolari.
Ad accoglierla, il governatore cittadino Fulvio Petrocci, insieme col
legato di Romagna, cardinale Acquaviva. Cosa successe?
Era una notte di novembre quando il rimbombo di un cannone scosse
Forlì: le strade erano illuminate con fiaccole e torce di cera
bianca alle finestre che formavano archi di luce. Sopra questi
“effetti speciali”, ecco i blasoni dell'ex Regina salutata da uno
spettacolo pirotecnico: aveva fatto ingresso in città con il suo
seguito di 250 uomini e altrettanti cavalli.
I Novanta Pacifici finanziarono una “macchina incendiaria” che
voleva rappresentare il fiume Montone. Cristina gradì la
scoppiettante sorpresa. Quindi fece i convenevoli di rito, con dame e
gentiluomini e passò la notte in città. Città che doveva essere
più o meno come quella rappresentata nell'immagine (in realtà, fu
disegnata da Coronelli quarant'anni dopo la celebrazione reale), con
le mura ben più ampie del centro abitato, con le porte "all'antica",
con la rocca di Ravaldino in posizione periferica e il canale che
esce con un rettilineo alla Grata, accarezzando la torre del Pelacano
dopo essersi confuso tra i vicoli della città. Emerge la sagoma del
Duomo con tanto di cupola, in posizione assolutamente centrale. Più
marginale è San Mercuriale, con l'ampio campo davanti, ornato, in
mezzo, dalla colonna della Madonna del Fuoco che da qualche decennio
aveva sostituito la "Crocetta", tempietto sorto per
ricordare la battaglia del "Sanguinoso mucchio".
I preparativi furono notati all'alba del giorno successivo: con gran
lavorio la grande piazza di Forlì era stata resa ancora più bella,
prolungando, per esempio, il loggiato del “pubblico palazzo”. Qui
la Regina aveva passato la notte e buona parte del giorno nel più
completo sfarzo: ricche mense cariche di “rarissime frutta a
dispetto della stagione”, vasellami d'oro e d'argento, musiche e
messa in Duomo. L'ormai ex regina, personaggio leggendario del suo
tempo, fu quindi incontrata “con treno magnifico” dal cardinal
Legato, dai cittadini con “ben quaranta carrozze a sei cavalli”,
oltre due compagnie di uomini d'arme e una di gentiluomini a cavallo
che facevano da scorta alla sovrana. Finora si è citata, come fonte,
la “Storia di Forlì” di Paolo Bonoli.
Lo stesso episodio è descritto anche dal coevo Sigismondo Marchesi
che ha lasciato una descrizione un po' criptica di queste
“contentezze universali”. Infatti, si trattiene dal dire “alcune
particolarità, che per degni rispetti convien tacere”. Eppure dice
e non dice, perché poi aggiunge sussurrando di “stranezze fatte a
Cittadini e Accademici Filergiti” dal cardinal Legato. Su cosa sia
successo, lo storico sorvola, parla solo di “allegrezze” citate
in contrasto con la tristezza della morte, avvenuta poco dopo, di
Fabrizio dall'Aste. Il Venerabile forlivese fu il fondatore della
congregazione degli oratoriani di San Filippo Neri.
La Regina di Svezia sarebbe tornata poi a Forlì, dopo un paio
d'anni: una pestilenza aveva infestato mezza Italia ma la Romagna ne
fu risparmiata. Di questo secondo transito si sa meno: alloggiò “in
casa del marchese Giuseppe Albicini”. Dopo aver già letto, in
questa rubrica, del passaggio di Edoardo I Re d'Inghilterra sotto san
Mercuriale, un'altra testa coronata sarà accolta nel capoluogo
romagnolo.
Una
visita agli antichi ospedali
Credo che chi legge ricordi che a Forlì, fino ad almeno il 2004,
esistevano due ospedali pubblici. Uno, centrale, il “Morgagni”
con i suoi padiglioni cresciuti e costruiti fino a cinquant'anni fa e
poi, i più recenti, abbattuti per fare spazio al Campus
universitario. Era l'ultima testimonianza di una tradizione sanitaria
che aveva individuato la sede, almeno fin dal Settecento, dell'antico
ospedale Casa di Dio presso il cosiddetto Palazzo del Merenda in
Borgo Cotogni e qui, ancor prima, aveva raccolto le competenze e la
buona volontà degli antichi Battuti. Poco al di fuori del suddetto
Palazzo, ai primi del Novecento fu iniziata la costruzione
dell'ospedale che, con una lunga gestazione, sarà prima dedicato a
Saffi e poi, appunto, a Morgagni. L'altro, il già Sanatorio
inaugurato nel 1937 nei pressi di Vecchiazzano come struttura per
contrastare la tubercolosi, poi fu chiamato "Pierantoni" e
adesso è l'ospedale "Morgagni - Pierantoni" perché si è
scelta la reductio ad unum. In città, i cartelli stradali
ricordavano questa duplice “ospitalità”.
Da decenni esistono note strutture sanitarie private: c'è sempre
bisogno di stare bene. I tempi cambiano in fretta, le Unità
sanitarie si fondono ma il mondo della salute forlivese ha salde e
profonde radici che hanno una dignità di tutto rispetto e una
tradizione che meriterebbe - chissà - un corso di laurea all'ombra
del campanile di San Pellegrino.
Già si ha un patrono taumaturgo contro i tumori, il Laziosi
ghibellino convertito che ancora oggi si festeggia il primo maggio
tra banchette accese di giallo e cariche di cedri. Altri religiosi
forlivesi hanno avuto un simile carisma. E poi si ha una gran copia
di dottori che hanno scritto la storia della medicina. Salta subito
in mente Giovanni Battista Morgagni, il "principe anatomico",
ma occorre rammentare almeno anche Giacomo della Torre (notissimo in
quel di Padova), Girolamo Mercuriali (l'inventore, se così si può
dire, della medicina sportiva) e Francesco Padovani. Inoltre,
Maurizio Bufalini, di casa a Forlì, fu aggregato alla nobilità
liviense ed ebbe incarichi municipali. In tempi recenti si ricorda la
feconda attività di Sante Solieri.
I più ricordano le ambulanze della Dam Una Man sbucare fuori con
sirene lagnose dagli angusti spazi di piazza XC Pacifici e il Pronto
Soccorso in via San Pellegrino Laziosi: non sono passati tantissimi
anni, bisogna essere stati nel ventesimo secolo.
Forse non tutti sanno che anticamente c'erano molti più ospedali. Si
è già parlato di quelli dei Battuti e della Casa di Dio in Borgo
Cotogni. Ma la Forlì medievale era caratteristica proprio per l'alto
numero di strutture dedicate alla cura della salute delle persone e
all'accoglienza dei più svantaggiati. Destinati a pellegrini e
infermi, gli ospedali nascevano sotto una chiara impronta cristiana.
Infatti, va ricordato che la città era una tappa per i pellegrini
diretti a Roma e quindi sottoposta a un passaggio di genti che poteva
avere bisogno di cure. Così è frequente trovarne associati a
chiese: si annoverano quelli di Santa Croce, di San Mercuriale, di
San Bernardo, di Santa Maria Maggiore (Ravaldino), di Santa Maria in
Schiavonia, delle Suore di Santa Maria “de Fundo Plegadici”, di
Santa Maria della Ripa, di San Giovanni Evangelista (anche questo era
in rione Ravaldino), di Santa Maria in Valverde (idem), dei Santi
Sebastiano e Pietro.
Fuori dalle mura, si citano, presso gli odierni Cappuccinini,
l'ospedale di San Giovanni in Vico o di Gerusalemme e, sempre fuori
porta Cotogni, l'ospedale di Sant'Ellero. Nell'omonima frazione c'era
quello di San Martino in Strada.
Oltre la Porta Liviense (prima chiusa poi scomparsa, esisteva tra
viale Salinatore e via Battuti Verdi), c'era l'ospedale di San
Varano. Risalirebbe al 1454 la prima documentazione dell'ospedale di
Santa Caterina oltre porta Schiavonia, quello di Bonzanino poco prima
di Cosina, quello di San Cristoforo in Villagrappa, di San Lazzaro
(ora lo ricorda una traversa di viale Bologna presso Villanova). Non
mancava un ospedale a Villafranca.
Oltre Porta San Pietro c'era l'ospedale dei Santi Vito e Modesto (a
Santa Maria del Fiore), quello di San Colombano (detto comunemente
Ospedaletto, come l'omonimo quartiere) e l'Hospitale de Sans.
In secoli molto più vicini si ricorda un Ospedale Invalidi fondato
nel 1808 dal Conte Domenico Matteucci in rione San Pietro.
L'ospedale forlivese del medioevo era, come detto, molto diverso da
come ci si aspetterebbe: la sala principale ospitava una decina di
letti con coperte e guanciali di penna, oltre e separato da essa il
vano destinato ai moribondi. L'ingresso alla sala principale era
generalmente un atrio arredato con qualche seggiolino, una cassapanca
e poco più. Una porta conduceva alla sala dei malati, un'altra alla
"portineria" dove alloggiava il custode (l'ospitalario).
Non mancano le stanze "nobili" dedicate al priore e ai
medici, le cantine, la cucina, uno studiolo, il granaio e il
ripostiglio. Niente servizi, cioè niente bagni: a quei tempi le cose
andavano così.
Girava di ospedale in ospedale una piccola pattuglia di medici (tre o
quattro in tutto) di due tipi: “fisici” e “cerusici”, questi
ultimi erano propriamente chirurgi.
Chi se lo poteva permettere si faceva curare in casa. L'ospedale o
lazzaretto (per chi legge Manzoni), in buona sostanza, era un luogo
per derelitti oppure veniva utilizzato per la quarantena in occasioni
di pestilenze. C'era l'abitudine, tra l'altro, che chi vi morisse
lasciasse i suoi averi (che evidentemente non dovevano essere
cospicui) alla confraternita, all'istituzione o all'ordine da cui
aveva ricevuto le cure. Molto spesso, dunque, era l'ultima spiaggia
per chi proprio non aveva nessun altro tipo di assistenza.
Sulle
tracce della comunità ebraica forlivese
Con la bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum del 1555, si
istituirono i ghetti come già era avvenuto al di fuori dallo Stato
Pontificio, a Venezia, per esempio. Forlì, sotto il controllo papale
in modo definitivo dal 1504, si adeguò e, secondo un documento
presente nei Consigli generali e segreti del Comune, fu deciso di
assegnare agli ebrei residenti in città la via Calcavinazza che da
allora si sarebbe chiamata dei Giudei e le strade circostanti,
nell'allora Borgo Merlonio. In quest'area si ergeva anche la
sinagoga.
Ma la fase del “ghetto” è solo l'ultima di una lunga storia che
vide anche la presenza di un'università ebraica a Forlì, attiva
fino alla metà del Cinquecento.
Già dal Duecento, infatti, è attestata la presenza degli ebrei a
Forlì, come è documentata la presenza di Lelio di Samuele da
Verona, medico, filosofo ed esperto di Talmud: qui nel 1280 scrisse
l'opera “Ricompense spirituali” e fu medico.
Se si fa risalire una scuola ebraica forlivese al Duecento, la più
antica immagine italiana dell'araldica ebraica (1383) proviene da
Forlì e si trova in un manoscritto appartenuto a Daniele di Samuele.
Nel 1359, inoltre, si segnala uno statuto civico forlivese che
testimonia la stabilità della presenza dei banchi ebrei in città.
La città ghibellina, nel Medioevo, concedeva agli ebrei di possedere
terreni e fabbricati, consentendo a Forlì di diventare un importante
centro di affari. Si segnala, infatti, un importante congresso dei
delegati delle comunità ebraiche di Padova, di Ferrara, di Bologna,
delle città della Romagna e della Toscana, nonché di Roma, che fu
convocato proprio a Forlì il 18 maggio 1418.
In esso si presero decisioni sul comportamento etico e sociale che
gli ebrei avrebbero dovuto tenere e si inviò una delegazione a Papa
Martino V per la conferma degli antichi privilegi e la concessione di
nuovi.
Un passaggio delicato per la comunità ebraica forlivese si ha nel
1488: alcuni congiuranti contro la signoria Riario-Sforza, da poco
insediatasi in città in luogo degli Ordelaffi, assalirono due banchi
ebrei.
La convivenza con la minoranza ebraica, per altro, si era sempre
mantenuta per lo più pacifica anche grazie, appunto, al forte
appoggio che gli Ordelaffi concedevano agli ebrei importanti
privilegi e possibilità di proficue imprese bancarie.
Con l'arrivo di Cesare Borgia, Forlì cambiò ancora una volta
governo e ancora una volta si registrò un saccheggio di un banco,
questa volta di Manuele di Borgo Ravaldino.
Alla caduta in disgrazia dei Borgia, e dopo un effimero ritorno degli
Ordelaffi, Forlì fu condotta direttamente alle dipendenze della
Santa Sede (1504). Nel 1520 è citato l'ebreo forlivese Ventura
Giacomo di Fano detto Rizio, nell'occasione in cui presenta, al
Consiglio cittadino, la concessione di poter esercitare l'attività
di prestatore. Il cardinal Legato ordinò ai consiglieri di
rispettare i nuovi banchieri perché, con la loro attività,
avrebbero dato aiuto ai cittadini più poveri.
Il 10 maggio 1529 si cita un atto di cessione del banco per il
prestito di Vitale da Pisa ad Abramo e Gentilomo.
Il documento testimonia il rapporto di collaborazione tra banchieri
ebrei ed autorità cittadine forlivesi e comprende tutti i capitoli
che le parti dovevano rispettare. In buona sostanza, si evince che
tra ebrei e governanti forlivesi scorreva buon sangue. Tale ipotesi è
corroborata da un atto del Consiglio cittadino del 25 giugno 1533 in
cui si riporta che, su argomenti di ordine economico, sarebbe stato
opportuno sentire il parere dei banchieri ebrei.
La comunità ebraica forlivese continuò a godere di una certa
rilevanza nella vita sociale cittadina: aprivano banchi (con tassi
d'interesse anche vicini al 20%) ed empori che fornivano possibilità
di lavoro per tutta la cittadinanza.
Sul finire del secolo, molti si convertirono al cristianesimo e dal
1593 iniziò l'espulsione della comunità dalla città: la maggior
parte degli ebrei forlivesi si trasferì all'estero (a Lugo), allora
dominata dagli Estensi.
Indagine
sulle chiese di Maria
Tra le parrocchie esistenti entro le mura cittadine tra la metà del
XII secolo e quella del XIII, è citata, oltre Santa Maria in
Laterano (la chiesa di Schiavonia), anche Santa Maria in Piazza,
situata a metà dell'attuale via delle Torri e di cui oggi non resta
alcuna traccia. Per quest'ultimo luogo di culto è particolarmente
documentata la consacrazione, avvenuta alla presenza del vescovo
Rodolfo il primo giugno 1271. L'importanza della chiesa in Platea
è fondamentale nella Forlì del Duecento fino ad almeno l'epoca di
Caterina Sforza e, forse, nucleo del baricentro urbano medievale.
Ora, al suo posto, c'è la sede forlivese della Banca Nazionale del
Lavoro. Nell'estate del 1806, fu infatti dapprima sconsacrata poi
utilizzata come magazzino fino a scomparire per sempre.
Entro le mura, ai tempi di Caterina Sforza, invece, troviamo dedicate
a Maria le chiese di Santa Maria Assunta (già citata, in
Schiavonia), Santa Maria della Neve (i cui ruderi, visibili nel
Dopoguerra, furono poi atterrati e la cui area conventuale distrutta
nell'ultimo conflitto mondiale, si estendeva dove ora c'è il
parcheggio di piazza Montegrappa), Santa Maria Annunziata (la chiesa
del Carmine in corso Mazzini), Santa Maria Addolorata (o Santa Maria
in Campostrino, o dei Servi, volgarmente detta di San Pellegrino, in
piazza Morgagni).
Tra i conventi, invece, spicca il grande Monastero di Santa Maria
della Ripa (complesso che per circa un secolo e mezzo è servito da
caserma militare): vanta tutt'oggi un chiostro enorme e merita una
visita giacché tanto "segreto" quanto suggestivo. Altri
luoghi mariani si trovavano in via Battuti Verdi (Santa Maria in
Novis), e su corso Diaz (Santa Maria Maggiore, poi Sant'Antonio Abate
in Ravaldino).
Una frattura nella storia religiosa della città si ebbe con l’arrivo
di Napoleone (1797) e il seguente periodo di dominazione francese. In
questo periodo, e con l’Unità d’Italia (1861), scomparvero
luoghi di culti antichissimi, cancellati senza troppe remore e di cui
oggi rimane solo il rimpianto per un’ingiustificata e tanto
frettolosa furia demolitrice.
Tra gli altri luoghi mariani in città, oggi scomparsi, è da
considerarsi la chiesa di Santa Maria della Grata, il cui nome
tradisce la presenza di una grata posta a protezione dell’immagine
di una Madonna, tra le più venerate in città. Qui si potevano
ammirare affreschi di Francesco Menzocchi e fu sede della
congregazione detta dei 63 preti, le cui regole furono stampate nel
1772. Esistente almeno fin dal 1568, divenne deposito di polvere da
sparo durante il passaggio delle truppe spagnole nel 1774. La chiesa
fu chiusa durante la dominazione napoleonica quindi fu convertita in
mulino e magazzino di legumi, fino a scomparire del tutto nel
Novecento.
La Madonna del Pianto era chiamata anche Celletta dello Zoppo perché
innalzata nel 1448 da Pietro Bianco, zoppicante da un piede, eremita
originario di Durazzo, che fondò pure il Santuario di Fornò. La
celletta era collocata in fondo a via Giorgio Regnoli, nei pressi
dell’attuale via Fratti. Fu chiusa nel 1806 e Francesco Romagnoli,
suo ultimo proprietario, la atterrò.
La Chiesa di Santa Maria della Pace, invece, sorgeva sull’area oggi
occupata dalla casa Serughi in corso della Repubblica.
Misteriosa la sua origine, forse presente fin dal 1507 per opera di
un eremita che volle edificarla sul luogo dove sorgeva l’immagine
della Madonna delle tre Colonne. “Pace”, forse, come attesta lo
storico Sigismondo Marchesi, si riferisce a un patto tra guelfi e
ghibellini giurato all’interno della chiesa nel 1534. Fu poi retta
dai Camilliani fino alla fine del Settecento. Scomparve gradualmente,
dopo la dominazione francese, in quanto divenne prima una fabbrica di
salnitro e poi trasformata in abitazioni private.
La Chiesa di Santa Maria in Valverde sorse sul luogo di un antico
ospedale. La chiesa, di origini quattrocentesche, fu concessa al
Terzo Ordine francescano. Ricostruita nel 1530 e consacrata dal
vescovo Bernardino de' Medici, fu soppressa in concomitanza con
l’invasione napoleonica. Rinacque poi nel 1818 come sede dei Minori
osservanti ma ebbe vita breve: nonostante i lavori di abbellimento
iniziati nel 1851, con l’Unità d’Italia la chiesa fu soppressa,
il convento espropriato e smantellato. Ora, su quel terreno, c'è
quello che fu l'asilo Santarelli.
La chiesa di Santa Maria delle Grazie, detta anche Madonna del Ponte,
era sorta dal 1557 come ringraziamento delle numerose grazie ricevute
dai devoti. La chiesa venne chiusa durante il periodo napoleonico e
poi fu riconvertita in abitazione. Era sull'attuale via Tommaso Zauli
Sajani.
È sopravvissuta la chiesetta dove un tempo si trovava la scuola ove
avvenne il miracolo della Madonna del Fuoco, la “chiesina del
Miracolo” in via Leone Cobelli.
La chiesa della Madonna Addolorata, in via Maroncelli, di origini
settecentesche è adiacente al convento del Corpus Domini, al quale è
collegato da un passaggio sotterraneo, e a pochi passi dal Duomo. Il
campanile è gemello a quello della chiesa vicina.
Risale alla fine del Cinquecento Santa Maria Annunziata, il piccolo
oratorio ora laboratorio artistico in via Andrelini noto come
“Madonna della tosse”. Probabilmente in tale lunga lista saranno
presenti omissioni.
I
forlivesi alla prima crociata
Il 17 novembre 1095, papa Urbano II, su sollecitazione delle Chiese
d'Oriente, invitò i cristiani ad armarsi per liberare la Terra Santa
e Gerusalemme sotto il dominio dei Turchi.
All'appello, insieme ad altri nobili e cavalieri italiani, rispose
una ventina di forlivesi. Cognomi che poi sarebbero stati importanti
per la vita cittadina: Ordelaffi (Alorio e Faledro), Orgogliosi
(Superbo, Argerio, Azzo), Calboli (Raniero e Fulcieri), Brandolini
(Tiberio e Sigismondo), Theodoli (Federico). In seguito, si
distinguono: Benciversus Corbellus, Aletus Berardus, Didus
Brocconius, Berengarius Matius, Mazzonius Alegrettus, Rinaldus
Arxendus, Ugonus Marinellus, Carolus Ottorenghus, Timidus Nasparius,
Rumagna Surdius, Rusticerius Pelizzarus, Manuzzus Gottus, Nerus
Capuccius, Laetus Turpinus.
Questi sono i nomi che riporta lo storico Bonoli il quale, tra
l'altro, cita, tra gli armigeri, le gesta di Sigismondo Brandolini
che si sarebbe fatto valere in Terra Santa con un "glorioso
certame": cioè "non solo si rese vincitore del proprio
avversario con rapirgli l'impresa degli scorpioni, ma cooperò alla
vittoria di Ottone Visconte, che tolse l'impresa del tortuoso
serpente, insegna dell'abbattuto nemico".
Alla spedizione, Forlì parteciperà come Comune pertanto, dopo la
presa di Gerusalemme (1099), riceverà il “premio”: potrà
fregiarsi della croce nello stemma. Ora troviamo quella croce entro
un uovo ghermito dall'aquila nera. Lo sfondo è vermiglio e la croce
è argentea. Il rosso deriverebbe dall'origine romana di Forum
Livii e su di esso sarebbe stata applicata una croce bianca. Così
accadde anche per altri Comuni, come Bologna, Pisa e Genova. Se però
Pisa e Forlì conservano la croce d'argento (rectius, bianca)
su sfondo rosso, Genova e Bologna hanno i colori invertiti. Forse non
si tratta di un caso. Infatti: se la croce è bianca su sfondo rosso
è detta “di San Giovanni Battista” e si fa derivare da antiche
insegne afferenti al Sacro Romano Impero. Viceversa è più
propriamente quella dei crociati, cioè quella detta “di San
Giorgio”: sfondo bianco e croce rossa.
Ciò potrebbe significare che, scegliendo la croce di San Giovanni,
Forlì volesse rivendicare il suo spirito ghibellino.
In ogni caso, il bianco e il rosso sono i colori che caratterizzano
la città tutt'oggi, come tutt'oggi è presente l'uovo crociato tra
gli artigli dell'aquila sveva. Questi non insignificanti particolari
di "colore" sono testimonianze, a distanza di secoli, anche
nel presente di quel lontano passato.
Alla presa di Gerusalemme esplose una grande festa nella città
romagnola, si costruì una rocca di legno che servì per giochi e
tornei. Dapprima, per finta, fu difesa da alcuni valorosi giovani di
buona famiglia, poi fu data a fuoco come metafora dell'impero degli
infedeli ridotto in cenere.
Sul campanile di San Giovanni venne frettolosamente acceso un
“grandissimo fanale” ma, a causa del vento, s'innescò un
incendio sul tetto della chiesa.
La gioia in quel 1099 crebbe quando, alla morte di Urbano II, salì
sul soglio pontificio un Papa “forlivese”: Pasquale II,
originario dell'alta valle del Bidente. Era stato monaco nell'Abbazia
di San Mercuriale.
Chi erano i Novanta Pacifici?
La piazzetta che si apre oltre il voltone del Municipio e prima della
torre ciclopica prende il nome di "XC Pacifici",
esattamente come la sala sotto la scala del Palazzo Comunale. "XC"
in numeri romani sta per "90". La piazzetta, frequentata
particolarmente di sera, avrebbe un bel selciato decorato da uno
stemma di Forlì che da tempo, per incuria, risulta pressoché
cancellato. In attesa che si ripristini, più prima che poi, forse è
il caso di raccontare la storia dei Novanta Pacifici, una
magistratura scomparsa che per almeno 250 anni ha placato i bollori
della litigiosa aristocrazia forlivese.
Se il Quattrocento è un secolo che risulta più avvincente per le
vicende cittadine, tra il governo Ordelaffi e quello Riario-Sforza
dell'audace Caterina, il Cinquecento appare più piatto e meno
ghiotto di bocconi storici. Giulio II, dal 1504, è il primo dei Papa
Re che condurranno stabilmente la riottosa città ghibellina a Roma.
Forlì, così, si trovò una provincia nel settentrione di uno Stato
che seguiva il corso del biondo Tevere. A medioevo finito, i
signorotti locali erano stati normalizzati in qualcosa di più
consono all'età moderna ma i dissidi interni non erano certo finiti.
Le famiglie della città, in primo luogo i Numai e i Morattini,
perseveravano nell'odio, in nome dell'antica ostilità ormai fuori
dal tempo: erano un po' i Capuleti e Montecchi di casa nostra. E
altri blasoni al seguito non erano da meno.
Che fare per ricondurre all'ordine?
Non c'erano molte alternative: istituire una magistratura con
funzioni principalmente di polizia. È quella del Sacro Numero.
Novanta Pacifici ossia pacificatori, appunto. Esperimenti simili non
erano nuovi in Romagna, già terra complessa di suo.
Ma a Forlì ebbero un ruolo di primo piano e furono una vera e
propria istituzione con ruoli attivi (sebbene con alterne vicende)
tra il 1540 e il 1797.
Se i primi decenni forlivesi del Cinquecento furono tutt'altro che
tranquilli, a causa, come già detto, delle lotte sanguinose tra
Numai, Morattini e rispettivi sodali, una soluzione fu trovata dal
Papa inviando come governatore Francesco Guicciardini. Questo nome è
noto perché, oltre ad essersi distinto come politico, diplomatico e
scrittore, è considerato il progenitore della storiografia moderna.
Tuttavia, le liti continuarono. Nel 1539, Paolo III scelse come
Presidente di Romagna Giovanni Guidiccioni, altro dotto letterato e
vescovo: arrivò a Forlì malvolentieri e subito si trovò in una
situazione difficile da gestire. Lamentò l'assenza di Roma e la
violenta babilonia romagnola. Occorreva un organo di tutela
dell'organo pubblico: così favorì una magistratura ad hoc con sede
al pian terreno del Palazzo Comunale. Guidiccioni scelse novanta
forlivesi considerati neutrali, buoni cittadini, saggi e distinti. Fu
quindi con loro costituita una pia congregazione con lo scopo di
sedare le discordie, conservare la tranquillità anche con l'uso
delle armi, allontanare i più turbolenti oltre le mura urbane.
Non si tratta, però, soltanto di uomini di buona volontà, ma di una
vera e propria istituzione politica con il preciso intento di
sbaragliare da Forlì una malattia particolarmente pervicace: la
parzialità. Infatti, i Novanta dovevano dimostrare di essere:
quieti, non intricati tra i dissidi delle liti intestine, al di sopra
di ogni sospetto. Inoltre, si vedrà che il Sacro Numero, la cui
iscrizione doveva essere volontaria, seguiva un regolamento
abbastanza macchinoso. Il Consiglio rimaneva in carica per sei anni,
poi occorreva una nuova elezione. Era l'organo principale del Sacro
Numero e qui ognuno aveva diritto di voto espresso con una fava, o
bianca, o nera.
Non mancava, infatti, la gerarchia: i sei Difensori della Pace
rappresentavano l'organo direttivo del Consiglio, poi c'erano i dieci
Consiglieri, il Cancelliere e il Tesoriere.
I Pacifici si dividevano in tre categorie (dette tre borse): i
Graduati, i Più degni, i Dei meno. Ogni due
mesi si estraeva dalla prima borsa un nome e l'eletto si chiamava
Priore dei difensori. Dalla seconda borsa si estraevano due
nomi e dalla terza tre: ecco i Difensori della Pace.
Unite la prima e la seconda borsa, si estraevano cinque nomi e così
dalla terza: i dieci eletti costituivano i Consiglieri dei
Difensori. Come stemma, i XC Pacifici avevano uno scudo crociato
incorniciato e incoronato.
Nato come corpo di polizia volontario e influente, il Sacro Numero
probabilmente nel corso dei secoli, mutate le esigenze, cambiò fino
a diventare un ente meno incisivo.
Vero è che seppe, almeno nel secondo Cinquecento, garantire in Forlì
una relativa tranquillità politica e sociale che poi si tradusse in
un rifiorire di arti, studi, scienze. Su questa pacificazione si
formerà la pittura dei Menzocchi e dei Modigliani, mentre Girolamo
Mercuriale pubblicherà i suoi studi sulla ginnastica che lo
renderanno famoso nel mondo.
Spiace constatare che oggi nulla, nemmeno un'associazione, nemmeno un
gruppo folcloristico, ne ricordi i fasti né il nome. Anche in questo
caso fu Napoleone che, al termine dell'età moderna, fece chiudere
questa pagina significativa di storia forlivese.
Forlì
al tempo delle ciminiere
Oltre a torri e campanili, c'è stato il tempo delle ciminiere. Agli
inizi del Novecento, Forlì era tra le prime città industriali
d'Italia. Non c'entra, qui, Mussolini. Anzi, Mussolini troverà
terreno fertile per le sue attività da giovane socialista proprio
perché Forlì era una città industriale di notevole importanza. Nel
giro di qualche decennio, dunque, la vita economica della città
crebbe a dismisura.
La rivoluzione industriale del Cittadone fa leva su una certa
borghesia che aveva trasferito il suo senso pratico e il suo “sbuzzo”
dall'agricoltura alla manifattura. Così spuntarono come funghi i
camini delle fornaci e, più tardi, le prodigiose centrali
elettriche. Inoltre si svilupparono officine meccaniche, fabbriche di
biliardi, ceramiche, industrie del legno, chimiche, tessili, concerie
di pelli, tipografie, stabilimenti alimentari.
E che dire della fabbrica avviata da Valerio e Pietro Becchi nel 1850
che conobbe fama internazionale con la stufa “a cassettoni” del
1890?
Il grande scheletro dell'Eridania è lì come un fantasma, relitto di
un tempo perduto.
Ci sarà qualche contemporaneo borghese “illuminato” capace di
finanziare un recupero degno della grande architettura e del parco
(potrebbe essere un bosco) che separa il centro da via Gorizia e San
Benedetto?
È sparito da un pezzo l'odore dolciastro sputato dalla ciminiera
dello zuccherificio; ora, della pregevole testimonianza storica
datata 1900, non rimane che lo scheletro.
E pensare che era il più grande stabilimento industriale della
provincia (che a quel tempo arrivava fino a Cattolica), occupava
un'area di circa sette ettari con undicimila metri quadrati di
superficie coperta. Due potenti centrifughe convogliavano l'acqua del
canale di Ravaldino con la portata di duecento litri al secondo.
C'erano abbastanza sili per quarantamila quintali di barbabietole,
così lo zuccherificio di Forlì occupava un migliaio di addetti e
produceva centoventimila quintali di zucchero: per quei tempi, roba
da primato.
Lì accanto c'era un'altra struttura industriale. La Società
d'Industria pel Gas e Fonderia di Ferro, nata nel 1863. Essa
diede via a quello che allora era il più importante stabilimento
industriale tra Bologna e Ancona.
Si facevano prodotti relativi alla meccanica, caldaie, trebbiatrici a
vapore, tubi, pompe, tettoie e altro. Nel 1895, lo stabilimento fu
acquistato da Enrico Forlanini (ne rimane la palazzina ora sede di un
istituto bancario lungo viale Vittorio Veneto). L'area Forlanini,
connessa con la linea ferroviaria Bologna-Ancona e la linea
tranviaria Forlì-Ravenna, ha cambiato totalmente aspetto con
l'avvento del ventunesimo secolo. Ora vi si trovano esercizi
commerciali e un albergo.
La diffusione dell'allevamento del baco da seta diede il la alla
costruzione delle filande cittadine. Si può citare, tra esse, la
Filanda Maiani che, benché oggi destinata ad altri usi, ha
conservato un aspetto simile all'originale. Un salto nel tempo
farebbe scoprire, all'interno dello stabilimento tra via Orto del
Fuoco e via del Portonaccio, centinaia di giovani donne alle prese
con bacinelle e turni di lavoro proibitivi. Spianata la più giovane
delle “antiche” fabbriche: la Mangelli, il cognome aristocratico
dà ancora il nome a un'area che ha conservato una ciminiera ridotta
a mozzicone di sigaro e la palazzina su piazzale del Lavoro. Stava a
Forlì come a Torino la Fiat: duemila e più maestranze, aria
“pesante” che ammorbava i viaggiatori in treno e tanto lavoro a
due passi dalla stazione.
Negli anni Ottanta erano ancora intuibili le tracce delle rotaie che
raggiungevano la fabbrica, fino a pochi anni fa i fabbricati
abbandonati stavano in piedi. Ora ci sono condomini e un centro
commerciale. Scomparsa del tutto la Bonavita: l'edificio storico è
stato sacrificato per la barcaccia e il parcheggio di piazza Guido da
Montefeltro. L'architetto romano fece atterrare la ciminiera con
l'accordo della Giunta e col rammarico dei cittadini. La demolizione
cancellò una storia importante: con la diffusione dei fucili da
caccia a retrocarica, Leonida Bonavita pensò di confezionare
dischetti di feltro per le nuove cartucce a pallini. La fabbrica
antica nacque, prima e unica in Italia, nel 1888 ed era divisa nei
reparti “feltro” (per coperte e pantofole), “borre” (per le
cartucce), “dischi” (per la pulitura di diverse superfici),
“buffetteria” (articoli in tela, feltro e pelle di vario genere).
Ritroverà, Forlì, il dinamismo di quel tempo?
Giocando
nel chiostro scomparso
Con l'Italia di fresco unita, la città si pose all'avanguardia per
quanto riguarda l'educazione dei più piccoli. Nel 1862 nacque
l'Asilo che poi sarà chiamato Santarelli, la più antica istituzione
simile in Romagna.
Il sindaco, conte Pellegrino Canestri Trotti, accolse una donazione
di Vittorio Emanuele II e così si aprì una pagina nuova per
l'infanzia forlivese.
Tra gli azionisti: il Comune, la Congregazione di Carità e la Cassa
dei Risparmi. Poi la Giunta invitò i cittadini a favorire
sovvenzioni con la partecipazione dei quattro rioni del centro
storico.
Ora, visto che è evidente che l'attuale struttura è una traccia del
razionalismo, quindi posteriore di settant'anni rispetto alla
fondazione, dov'era, in origine, l'Asilo?
Fatta eccezione dei primissimi anni, è sempre stato in via Caterina
Sforza. Al posto dello stabile su cui ci sono progetti di recupero e
altre destinazioni (biblioteca moderna?), caratterizzato da un ampio
porticato d'ingresso, davanti al quale campeggiavano (da qualche anno
non ci sono più: in restauro?) le teste scolpite di Apelle e Antonio
Santarelli, la cui eredità equivale in buona parte all'Asilo stesso,
c'era un complesso conventuale di tutto rispetto.
Visto che fu smantellato, cioè demolito, nella prima metà degli
anni Trenta, ci sarà ancora qualcuno in vita che ricorda com'era.
Era il chiostro della chiesa francescana di Santa Maria in Valverde,
simile, sebben minore, a quello che tutt'ora esiste alla Ripa:
colonne ottagonali in mattoni, capitelli tozzi ed essenziali, una
panoramica austera e sobria, cioè francescana.
Si sa che nel 1438 la chiesa fu affidata ai frati del Terz'ordine
regolare di San Francesco ed ebbe una vita prospera ma travagliata,
tanto che oggi, su via Caterina Sforza, non è neppure immaginabile.
Se non per l'odonomastica: la via Valverde costeggiava il convento.
Probabilmente la “valle” era la riva del canale che scorre sotto
l'asfalto.
Tra gli episodi salienti della chiesa vi fu la permanenza e la morte
del beato Geremia Lambertenghi (1513). La chiesa antica fu poi
ricostruita nel 1530, spogliata e sconsacrata negli anni di
Napoleone, quindi fu assegnata ai frati Minori osservanti e
riconsacrata nel 1819. Nonostante che nel 1851 fossero iniziati
lavori di recupero, restauro e abbellimento del luogo di culto già
notevole da un punto di vista artistico, con l'Unità d'Italia fu
definitivamente soppresso (come altre chiese oggi purtroppo
scomparse) e il convento fu espropriato. Così divenne asilo.
A differenza dello speculare “asilo per anziani” dal lato opposto
di via Caterina Sforza che sostanzialmente ha conservato ciò che
rimaneva dell'antico complesso di San Salvatore in Vico, del convento
francescano di Valverde non rimane una pietra.
Già dichiarato poco funzionale e scarsamente igienico negli anni
Venti, fu integralmente raso al suolo e ricostruito grazie a cospicue
donazioni. I lavori iniziarono nel 1934: per la progettazione
dell’edificio fu indetto un concorso, vinto dall’ingegnere Guido
Savini, la cui proposta venne scelta direttamente da Benito
Mussolini. Fu quindi inaugurato due volte: da donna Rachele (il 6
novembre 1937) e addirittura dalla Regina Elena (il 26 ottobre 1938).
Sua Maestà, in particolare, non fece una visita affrettata, ma si
soffermò su gran parte dei locali dell'Asilo ascoltando alcuni canti
dei bimbi accompagnata dal Consiglio Direttivo, dalle
Patronesse-ispettrici, dalle Autorità cittadine. Come per riprendere
l'antico chiostro spazzato via senza troppe remore dal piccone
novecentesco, la struttura è organizzata intorno a una corte
racchiusa da un portico e su tre lati dagli edifici.
Grande attenzione fu data alla luce: le aule sono orientate a
sud-est, si affacciano sul giardino e possono godere della massima
illuminazione naturale. I diversi blocchi sono disposti in modo
asimmetrico e hanno entrate indipendenti. L'interno è arricchito da
decorazioni di Francesco Olivucci. Negli anni della guerra fu
smantellata la cancellata di ferro per essere sostituita con
materiale autarchico, in seguito si iniziarono a sistemare locali
sotterranei in previsione di bombardamenti aerei. Il giardino
dell'asilo, l'anno successivo, divenne un orto per ordine del
Prefetto. Negli anni più foschi fu requisito dai tedeschi e, dal
novembre del 1944, occupato dai polacchi. Grazie a donazioni, tornata
la pace tornarono i bimbi e così fu fino all'estate del 2012.
Forum,
dove sei?
Forlì, si sa, è una città enigmatica. Adesso va di moda il
Novecento, in realtà è abitata da 800 mila anni (se si pensa ai
ritrovamenti di Monte Poggiolo). Ora, il Museo Archeologico è chiuso
almeno da due decenni (tra l'altro, nel 1996 la città fu sede di un
importante congresso internazionale sulle scienze preistoriche e
protostoriche) e per alcune stagioni si proiettava una rassegna
cinematografica a tema, cosa che poi non si è più ripetuta.
Auspicando di poter rivedere di nuovo e a breve le preziose
collezioni antiche che raccontano storie millenarie, occorre forse
far luce su cosa fosse Forlì millenni fa.
La città, per così dire già centro abitato prima che gli uomini
potessero dirsi sapientes, cambierà forma nel tempo, seguendo
le anse del Rabbi e del Montone. La via Emilia fu tracciata nel 187
a.C. e a questa data si dà per certo che Forlì, almeno in quanto
Forum, esistesse già. Nella civiltà romana, il Foro era il
punto d'incontro ufficiale dei cittadini di tutti i territori della
Repubblica e poi dell'Impero: lì essi si recavano per partecipare o
assistere agli affari politici, amministrativi ed economici che
riguardavano la comunità di cui facevano parte. Tribunale, mercato,
luogo di culto, terme, teatro: ci poteva essere un po' di tutto per
edificare anima, corpo, coscienza, vita politica, economia.
Forse già presente in epoca etrusca come Ficline perché
“città di vasai” (con buona pace di Faenza), l'urbe antica
continua a mantenere una coltre di mistero. Sul confine dei territori
dei Galli Boi e dei Senoni, fu a poco a poco romanizzata. Nomi e
meriti se li è presi Livio Salinatore, uno dei Livii
fondatore della città romana. La mancanza, però, di tracce
consistenti della Livia sono imputabili a due cause principali:
l'idrografia davvero complessa e mutevole (sia per natura sia per
mano dell'uomo) e il passaggio della via Emilia che, appunto perché
comoda arteria di comunicazione, è stata anche luogo di scorribande,
invasioni, cambiamenti, contaminazioni.
Quindi, se a Roma il Foro è ancora “alla luce del sole”, a Forlì
è stato ingoiato dal tempo e rimane nascosto. Ma dove sarebbe
esattamente?
Se gli storici antichi amavano soffermarsi su ricostruzioni
suggestive e anche fantasiose, separando un Castrum (Livia)
verso i Romiti e un Forum (Livii) più o meno in zona Trinità,
resta il fatto che in merito ancora non vi sono risposte definitive.
Scavi (per esempio in via Curte) hanno evidenziato la presenza di
ricche domus, degne più di una Civitas che di un
semplice Forum. Infatti, divenne più avanti Municipium
(non stiamo qui a scandagliare le differenze tra i vari “enti
locali” del tempo) popolato dalla tribù Stellatina e con un
territorio di sua pertinenza che comprendeva anche Mevaniola
(Galeata) e Forum Popilii (Forlimpopoli). Gli storici antichi,
peraltro, raccontano di una distruzione della città che poi sarebbe
stata ricostruita grazie anche a Livia, moglie di Augusto, secoli
dopo.
I romani, amanti del diritto e delle infrastrutture, adattarono così
un centro abitato lungo quella che stavano per chiamare via Emilia.
Un pettine di strade si articolava attorno al Foro. Il decumano
massimo era la via Emilia, probabilmente da intendersi come via
Maroncelli e delle Torri, il cardine massimo proveniva da Malmissole
e arrivava a piazza Melozzo per seguire le vie Lazzarini e Battuti
Verdi. Che la piazza Melozzo fosse il Foro non c'è certezza, anzi,
le ipotesi si moltiplicano. Infatti, pare che la città romana fosse
una stretta fascia tra Porta Schiavonia e il porticato del Municipio,
dove scorreva uno dei fiumi di Forlì scavalcato dall'antichissimo
Ponte dei Cavalieri, altro limite era corso Garibaldi e, verso
Ravenna, poco oltre il decumano individuabile, come detto, in via
delle Torri.
Oltre a queste aree si estendevano necropoli (particolarmente vasta
quella tra le vie Albicini e via Zauli Sajani) e impianti produttivi
(specialmente fornaci).
C'erano, ovviamente, anche templi: si sa che a Forlì ne esisteva
almeno uno dedicato a Giove Ottimo Massimo, con il titolo di
Obsequens e Victor o Vector (quest'ultimo, nelle
prime colline). Sotto via Giove Tonante ci sarebbe un edificio a
carattere religioso. Era venerata anche Giunone Regina insieme con le
Parche. E perfino Bes, riconducibile al culto di Iside.
C'è chi pensa che il Foro fosse più o meno sotto l'attuale area del
convento della Ripa. Interessante, non a caso, è la “forcola”
tra corso Garibaldi e via Giovine Italia, una deviazione un tempo
lambita da un fiume che va a costituire un curioso poligono, se visto
dall'alto: che sia una riproposizione di un'antica basilica (in senso
romano) accanto alla più recente chiesa della Trinità? Tuttavia è
probabile che il fulcro urbano fosse tra le vie delle Torri, Mameli e
Pisacane, zona che fino al medioevo era chiamato Platea. Chi si
poteva incontrare nel Foro? Grazie alle iscrizioni, conosciamo i nomi
di alcuni antenati: tra cui Ambivia Pola, Anneius Rufus, Aruntius,
Augurinus, Quintus Sextilius Barbula, Livia Pola, Grasidia,
Saturnina, Rubria Tertulla, Purtisius Atinas, Varius Fortis, Vinicia
Moschis. In particolare, di Rubria Tertulla, morta
ventenne, si nota una certa fierezza di essere vissuta a Forlì,
così, infatti, si legge nell'incipit dell'iscrizione funeraria:
Livia me tellus genuit geminamque sororem, cioè "La
terra Livia nutrì me e mia sorella gemella".
Che
fine hanno fatto le mura di Forlì?
Il 1 luglio 1904 Forlì entra nel Novecento. Come? Segnando una netta
cesura col passato. Tra un pacchetto per uscire dal secolo
precedente, un passaggio fu ed è piuttosto controverso:
l'abbattimento delle mura. In seguito alle riforme daziarie Forlì
divenne “città aperta”, quindi porte e barriere non servivano
più. Anzi, l'urbe voleva scavalcarle, voleva ingrandirsi.
La conseguenza del provvedimento approvato dalla Giunta repubblicana,
con l'occhio di chi allora lo volle, fu visto come “un vantaggio
economico non indifferente”, ma soprattutto venne notato “l'alto
significato liberale e civile”, cioè: “le secolari barriere,
triste avanzo del Medio Evo, sono state abbattute per sempre”. Il
lavoro fu davvero certosino, tanto che ora non è facile trovare
avanzi di mura, non n'è stato lasciato in piedi nemmeno un tratto
integrale a mo' di esempio.
Il che non fu facile: si trattava di un esagono dal perimetro di
cinque chilometri. Parte dei mattoni finì a edificare il torrione
dell'acquedotto in uno stile aggraziato e finto medievale, poi
atterrato dall'ultima guerra, molto più appropriato dell'attuale
anonimo nei giardini accanto alla Rocca di Ravaldino. Il
provvedimento fu aspramente criticato dalle opposizioni, in
particolare dai liberali moderati e dai cattolici. Sul giornale La
Voce della Libertà si leggeva: “A chi giri intorno alla nostra
città par di assistere ad uno spettacolo quasi simile a quello di
una città bombardata. Le nostre mura, cui si collegano avvenimenti e
vicende consacrate nella storia patria, senza alcuna pietà sono
state del tutto flagellate. Si dette mano al piccone demolitore,
senza prima aver escogitato un piano stradale di assestamento. Non
comprendiamo quale imperiosa urgenza sospingesse tanta ira contro
innocue mura!”. Infatti: “Se intento era di facilitare la
viabilità, lo scopo si conseguiva egualmente senza che avvenissero
tanto sfacelo e tanta dispersione di materiale, aprendo comunicazioni
là dove si manifestano necessarie”. In realtà, all’occhio di
chi scrive “le mura (si può dire) sono rimaste alla mercé della
ragazzaglia e di chi ne voleva trarre profitto”. In poche parole,
chiunque poteva rubar mattoni. Senza lungimiranza, tra l’altro, in
quanto: “Si è proceduto con deplorevole noncuranza, si è,
infatti, impreso a demolire e non si è provveduto a dar sesto alla
parte di muro che veniva lasciata come difesa per la viabilità, in
guisa che lo spirito dei vandali paesani si esercita man mano
abbassando l’altezza della muraglia, ed in alcuni luoghi facendo
pericolose aperture”.
E, infine, la critica politica: “Molto danaro è stato speso nella
infelice demolizione e poco deve il Municipio averne ritratto nella
vendita del materiale”. Si noti che le medesime considerazioni
erano state tratte anche dal Lavoro d’Oggi, d'ispirazione
cattolica: “Non si vede però l’urgenza di una demolizione
completa. In alcuni punti della città p.e. sul fiume, è quasi
impossibile. In altre parti porterebbe come conseguenza tanti altri
lavori, che il bilancio non permette di affrontare. Basterà bene
aprire alcuni punti. Ad ogni modo il materiale non paga neppure la
spesa della demolizione”.
Insomma, è andata com'è andata, e oggi cosa ne rimane?
Sostanzialmente, il percorso dei viali di circonvallazione che più o
meno seguirebbe fedelmente l'ultima e definitiva cerchia muraria
completata da Caterina Sforza. Pochissimi i tratti in alzato
superstiti, e nemmeno poi così valorizzati né tantomeno conosciuti.
Fatta esclusione del complesso della Rocca di Ravaldino e della
Rocchetta di Schiavonia, i superstiti sono da cercare in via del
Portonaccio (tratto di mura con guardiola quadrata), dalle parti di
via Enrico Forlanini (rudere della torre del Pelacano), in viale
Salinatore (torre dei Quadri o del Giglio sulla riva del Montone), in
via Porta Cotogni (tratto di mura riutilizzate per la costruzione
dello sferisterio). Un “muretto” scorre anche nel parco del
Campus universitario, forse è ciò che rimane di un tratto antico.
Altri frammenti sono presenti presso giardini privati.
Le mura erano in mattoni, spesse in media un metro ma anche quasi il
doppio.
Sopra il piede a scarpata, si alzavano verticali per almeno cinque
metri e terminavano con merli a coda di rondine. All'interno correva
un terrapieno, all'esterno un fossato.
Vi si aprivano quattro porte: Schiavonia (occidente), Ravaldino
(mezzogiorno), Cotogni (oriente), San Pietro (settentrione).
Un'ulteriore, la Valeriana o Liviense, fu murata già in epoca
remota.
Le mura erano rinforzate con quarantasei torri-guardiole a base
rettangolare o circolare. La cerchia abbattuta nei primi anni del
Novecento era la più recente della storia della città in continua
espansione. Iniziate da Antonio Ordelaffi nel 1438, le mura furono
concluse in fretta e furia da Caterina Sforza nel 1499, col fiato del
Duca Valentino sul collo.
Altri tratti di laterizio che si possono notare lungo i viali di
circonvallazione (parcheggio di piazza Montegrappa, viale Vittorio
Veneto e viale Italia, e viale Salinatore) non si riferiscono alle
mura propriamente dette, ma è ciò che rimane dei muri delimitanti
complessi conventuali ora scomparsi.
Il primo apparteneva a Santa Maria della Neve, poi Distretto
militare, quindi azzerato dai bombardamenti e “ripulito” da ciò
che ne restava nel dopoguerra. Il secondo, mozzato da viale Italia e
dalla rotonda obliqua, conchiudeva Santa Chiara.
Su viale Salinatore, all'altezza della “Fabbrica delle candele”
corre un muro, ma anche in questo caso non si tratta della cinta
urbana, collocata dal lato opposto della strada.
Con grande rammarico, si può constatare che se gli amministratori di
allora fossero stati meno “alla moda”, oggi Forlì avrebbe una
cerchia muraria decisamente importante e una delle più ampie a
livello nazionale.
Forlì
e i dodici Papi
Forlì, città ghibellina per antonomasia, nella sua storia ha
ospitato almeno dodici Pontefici.
L'ultimo della lista è (per ora) San Giovanni Paolo II che
trent'anni fa fu acclamato in città, momento importante della storia
urbana di cui molti conservano il ricordo.
Si apprende del passaggio probabile di almeno altri due: Nicolò V
(860) venne in Romagna per sedare i soliti dissidi interni, Adriano
III poco prima di trovare la morte nel modenese nell'885. E chissà
quanti altri saranno transitati da qui. Non si può non citare
Pasquale II (eletto nel 1099) che fu a Forlì, se non come Papa, come
monaco vallombrosano tra Fiumana e San Mercuriale e, tra l'altro, era
originario dell'alta valle del Bidente. Senza contare un cardinale
forlivese, Fabrizio Paolucci, che per un soffio Papa non fu: papabile
più forte per ben due conclavi (1721 e 1724) gli fu impedito il
soglio di Pietro per il veto dell'Imperatore d'Austria (allora poteva
andare così). Il cardinale forlivese, comunque, ricoprì incarichi
importantissimi a Roma e grazie a lui Forlì ebbe il palazzo della
Missione (ora della Provincia) e il palazzo Paolucci de Calboli a due
passi dall'Abbazia di San Mercuriale.
Quali altri Pontefici soggiornarono in città?
Martino V fu a Forlì sabato 18 febbraio 1419. Entrò in città di
sera, con cinque cardinali e alti prelati, attraversando Porta
Schiavonia.
In Duomo benedisse il popolo entusiasta e, uscitone, salì a cavallo
precedendo il tabernacolo che conteneva il Santissimo circondato da
ceri accesi e da sei cavalli bianchi. Giunse in piazza (ora Saffi)
dove fu acclamato dalla folla con rami d'ulivo.
Il Palazzo (ora Municipio) era adornato con drappi bianchi e rossi e
qui, in una camera con stoffe d'oro, riposò. Il giorno dopo
ricevette Lucrezia, moglie di Giorgio Ordelaffi, e seguì la
cerimonia del baciapiede che, per la folla, proseguì fino a sera.
All'imbrunire, Giorgio Ordelaffi ricevette la benedizione papale e
quindi fu legittimato a governare Forlì. Lunedì si affacciò per
guardare dall'alto il mercato, il più fornito della Romagna, e il
giorno dopo, alle undici, si sporse ancora dal Palazzo con una croce
per benedire una folla di diecimila persone. Ripartì poche ore dopo
alla volta di Castrocaro, per raggiungere Firenze ove non sarà
accolto con altrettanto calore.
Giulio II visitò Forlì dal 9 al 17 ottobre 1506 e il 25 febbraio
1507. Dal 1504 si poteva considerare “Papa Re” in quanto lo Stato
forlivese fu assorbito da quello Pontificio. Così, con 18 cardinali
e cinquecento cavalieri, visitò i suoi nuovi dominii. Durante la
prima permanenza, il Santo Padre entrò dal ponte del Ronco dove fu
acclamato da numerosi giovani. Cavalcava una mula bianca finemente
adornata preceduta dal Santissimo Sacramento in una preziosa teca
protetta da un panno d'oro. Fu ricevuto a Porta Cotogni dai
maggiorenti che gli offrirono le chiavi della città ma egli le
rifiutò con dolci parole. Raggiunse la piazza sotto un baldacchino
al suono di campane, trombe e pifferi. Un'ampia porta posticcia
fungeva da arco trionfale per l'ingresso in piazza: porta che si aprì
all'arrivo della processione e si chiuse una volta terminata. Quindi
il Papa ascoltò alcuni versi poetici in lingua forlivese, in seguito
il corteo proseguì verso la Cattedrale. Dopo la messa, fu portato
sulla sedia gestatoria nel Palazzo dove fu alloggiato nella camera
delle ninfe. Soldati, corte e cardinali furono distribuiti tra
conventi e famiglie aristocratiche. Visitò più volte la Rocca di
Ravaldino. Il giorno 14, in forma solenne, la cittadinanza forlivese
giurò fedeltà al Papa. Il 17, però, nonostante tutto l'apparato di
sicurezza, qualcuno rubò baldacchino e preziosi paramenti d'oro.
Giulio II tornerà a Forlì l'anno successivo ma questa volta quasi
in forma privata: tra i luoghi visitati, la Rocca e Fornò.
Clemente VII onorò Forlì con la sua presenza due volte: il 25
ottobre 1529 (andata) e il 1° aprile 1530 (ritorno). Era una delle
tappe in vista dell'incoronazione di Carlo V.
Paolo III transitò a Forlì nel 1541. Di questo passaggio rimangono
documenti che testimoniano quanto il Papa stimasse la neonata
magistratura dei Novanta Pacifici di cui promosse l'attività di
pacificazione tra le opposte fazioni che allora dilaniavano non solo
Forlì, ma tutta la Romagna. Pochi anni dopo sarebbe iniziato il
Concilio di Trento.
Clemente VIII entrò in città nei primi giorni di dicembre del 1598
da Porta Schiavonia con prelati, cavalieri e fanteria preceduti dal
Santissimo Sacramento. L'accoglienza all'ingresso della città fu
data dalle autorità locali e da dodici fanciulli vestiti di damasco
bianco che agitavano rami d'ulivo argentati. Furono offerte le chiavi
della città ma il Santo Padre le restituì in quanto certo della
fedeltà dei forlivesi. Quindi procedette in lettiga verso il Duomo,
accolto da folla festante e archi costruiti in suo onore.
Dopo la messa di ringraziamento, si recò a Palazzo per la cerimonia
del baciapiede.
Partì da Forlì il 3 dicembre: si fece condurre alla Porta di
Ravaldino da una mula bianca e concesse il titolo di cavaliere ai
giovani che l'avevano servito. Quindi raggiunse Meldola, Forlimpopoli
e tornò a Roma.
Pio VI, romagnolo, fu nelle vesti papali a Forlì il 7 marzo 1782 per
venerare la Madonna del Fuoco. Due anni dopo, concesse una messa e un
ufficio propri per la Patrona.
Pio VII, altro romagnolo, venne a Forlì il 15 aprile 1814. Era
notte: ricevette, a Porta Schiavonia, l'omaggio del prefetto e del
podestà. Le campane suonavano a festa, un ingente numero di persone
accorse arrampicandosi perfino sugli alberi e scavalcando siepi pur
di essere il più vicino possibile alla carrozza. Ci fu chi staccò
la vettura dai cavalli per tirarla a mano fino al Duomo solennemente
apparato. Accolto dal Vescovo, si diresse sotto il baldacchino verso
la cappella della Madonna del Fuoco.
In piazza c'erano trentamila persone e il Papa entrò a Palazzo tra
acclamazioni e applausi. Fu una visita veloce ma spettacolare: di
notte la città era così illuminata che sembrava giorno. Per il
clamore suscitato, il podestà Antonio Gaddi (marito di una nipote
del Pontefice), agli sgoccioli dell'epoca napoleonica, mutò il nome
di Borgo Cotogni che così divenne Borgo Pio, e l'attuale piazzale
della Vittoria fu chiamata piazza Pia. Sul luogo dell'incontro del
Papa con le autorità cittadine era stata costruita una celletta
dedicata a Maria del Divino Amore. Fu in piedi fino agli anni
Sessanta (del Novecento), quando venne abbattuta per far spazio alla
pista ciclabile (sic!) e ricostruita in stile moderno un po'
più all'interno rispetto al bordo stradale.
Dal 3 al 5 giugno 1857 fu a Forlì Pio IX.
Il suo arrivo fu salutato dal fragore dei cannoni e accompagnato
dalle bande cittadina e svizzera. Entrò da Borgo Pio, e anche in
questo caso la gente era stipata in ogni dove. Le autorità
scortarono il Papa fino al Duomo (in piedi sulla carrozza a capo
scoperto). Dopo la messa, a piedi si recò nel Palazzo dal cui
balcone si affacciò e il popolo ricevette la benedizione a capo
chino.
In piazza fu collocato un “tempio della pace” con oltre trecento
lumi, struttura creata per l'occasione e smantellata subito dopo.
Il giorno successivo, accortosi che l'altare del Duomo era di legno,
s'impegnò a procurare per Forlì un altare più appropriato, in
marmi di Roma, cosa che avvenne nel 1860.
Fu ospite di conventi ed enti assistenziali, quindi accolse tanta
gente desiderosa di parlare. Il Pontefice non prese parte al pranzo
ufficiale di Stato perché preferì mangiare da solo. Per la seconda
sera forlivese, dopo la cerimonia del baciapiede, si accese una
macchina di fuochi d'artificio particolarmente spettacolare.
Il 5 giugno era all'ospedale (Palazzo del Merenda) per visitare gli
infermi. Il bilancio della visita, proprio per l'accoglienza
calorosissima, fu straordinario e fu l'ultima volta di un Papa a
Forlì fino al 1986 e l'ultima come sovrano dello Stato Pontificio.
I dieci anni che sconvolsero la piazza
Piaccia o no, Forlì non può prescindere dalla sua piazza. E per
“piazza” (così i forlivesi indicano genericamente il centro
storico per sineddoche), qui s'intende quella che è dedicata al
triunviro della repubblica romana: Aurelio Saffi. Con i suoi quasi
130 metri di lunghezza e poco meno di 90 di larghezza, è sul podio
tra le piazze centrali più vaste d'Italia. Nel corso della storia è
stata di tutto: necropoli, campo, teatro di sanguinose battaglie,
luogo di mercato e di trattative di vario genere, cuore di iniziative
religiose ma anche di esecuzioni dei vari signori di turno, salotto
della città a via a via rimaneggiato, un tempo più vissuto, oggi
spesso negletto.
Più di otto secoli sono passati da quando il terreno, allora ai
margini della città, fu concesso per uso pubblico pur mantenendo per
secoli il nome di Campo dell'Abate (nome che magari un giorno, in un
impeto di creatività controcorrente, potrebbe essere ripristinato).
Poi divenne, in modo più anonimo, piazza Maggiore, in seguito
dedicata a Vittorio Emanuele II, quindi, negli anni Venti, perse il
titolo “regale” per chiamarsi "Aurelio Saffi", grande
forlivese con quel cognome che fa rima con gli antichi Ordelaffi.
Salvo una parentesi anglofona: St. Andrew square nei giorni
della liberazione, la piazza tornerà poi “Saffi”. La sua statua
pensosa è al centro del grande trapezio, ma prima vi era la colonna
della Madonna del Fuoco, e prima ancora, più decentrata, la
“Crocetta”.
Nelle cartoline di un tempo la si vedeva parcheggio, nei giorni
giacobini vi si innalzò l'albero della libertà, oggi fa discutere
l'albero di Natale.
La piazza è monumentale ed eterogenea, un campionario di secoli e
stili.
Nel corso del tempo ha subito numerosi cambiamenti pur rimanendo
sempre riconoscibile anche grazie al campanile di San Mercuriale, più
antico della piazza stessa.
Il lato che ha subito più modifiche, però, è quello che, negli
anni Trenta, ha visto sorgere il palazzo degli Uffici Statali e il
palazzo delle Poste. In questi pochi anni, furono sacrificati edifici
d'importante valore storico. Al loro posto, a differenza di quanto
avvenuto con la fretta e la furia del dopoguerra, ci sono costruzioni
altrettanto importanti dal punto di vista architettonico. Tuttavia si
è perso molto. Da dove nacque questa smania di stravolgere la
piazza?
Fu Mussolini in persona che sollecitò più volte l'avvio del
“piccone” e seguì sempre lo svolgimento dei lavori, anche quando
i vincoli architettonici avevano espresso parere contrario. Più
bianco travertino meno rosso mattone, insomma: sorsero il palazzo
delle Poste con le due torrette laterali in simmetria al paio di
aquile sulle colonne, quello degli Uffici Statali (anch'esso con
torretta, danneggiata dalla guerra e mai più ricostruita).
Per finire, il chiostro di San Mercuriale venne “aperto” come per
ricordare che la giustizia osserva chiunque (il Tribunale).
La “piccola Roma” prese forma dal 1931 e sarebbe stata completata
a firma dell'architetto Cesare Bazzani.
Dieci anni che avrebbero stravolto l'aspetto della piazza, conferendo
la monumentalità da “città del duce”. I primi palazzi ad essere
sacrificati furono quelli della cosiddetta “Isola Castellini” (i
palazzi Pantoli, Rolli, e abitazioni contigue). Il palazzo Pantoli
risaliva alla fine del Settecento e aveva alcune stanze affrescate da
Felice Giani, il palazzo Rolli sorgeva sulla residenza del medico
Girolamo Mercuriali, al piano terra aveva sede l'Ufficio telegrafico.
La cosiddetta "Isola Castellini", rendeva la piazza più
piccola di com'è ora, avendo il fronte più avanzato rispetto
all'attuale palazzo delle Poste.
Trovato il finanziamento (2.500.000 Lire) al ministero delle
Comunicazioni, Mussolini così scriveva al Prefetto di Forlì:
“Mi dica esattamente quanti sono i negozi e quanti gli inquilini
che dovrebbero sloggiare per il nuovo palazzo delle Poste”.
La risposta, giunta il giorno successivo, era la seguente: 51
famiglie e 18 negozi.
La fretta di Mussolini era dovuta al fatto che voleva inaugurare il
palazzo in occasione del decennale della marcia su Roma (28 ottobre
1932). Dopo gli espropri, iniziarono le demolizioni e la costruzione
del nuovo edificio fu affidato alla ditta Benini con 130 operai. I
lavori furono eseguiti in tempo: come desiderato dal duce,
all'anniversario della marcia su Roma fu inaugurato l'edificio.
Più complessa la genesi del palazzo degli Uffici Statali. Infatti,
l'area da sacrificare sarebbe stata quella all'imbocco di corso
Mazzini e via delle Torri, detta “Cantone del Gallo”. Era un
isolato abitato da ricche e influenti famiglie cittadine,
inizialmente vi avevano dimora i Numai, quindi i Montanari, i Valdesi
e i Pantoli. In particolare i primi volevano realizzare il massimo
possibile sugli espropri ma, nonostante le amicizie con parenti
stretti del duce, le trattative non andarono come avrebbero sperato.
Inoltre, c'erano commercianti poco disposti a traslocare e, problema
dei problemi, l'austero palazzo Baratti per il quale vi erano vincoli
artistici posti dal ministero dell'Educazione nazionale.
Questo palazzo rappresentò un vero cruccio per Mussolini che, di
tanto in tanto, passava da Forlì e lo vedeva sempre in piedi. Il
duce si era interessato di persona, tramite il ministro dei Lavori
Pubblici (Di Crollalanza) suggerendo “l'assoluta necessità”
dell'abbattimento del vecchio edificio per far spazio a uno nuovo con
uffici, portico e negozi. Era il luglio del 1934. Il ministro tentò
invano di far capire al Capo del Governo che, per motivi artistici,
era impossibile la demolizione. Mussolini però a settembre,
ripassando da Forlì, scrisse: “ho visto il cosiddetto palazzo
Baratti ancora in piedi. Se necessario come sembra rinnovate gli
ordini per demolirlo senza indugi”. Svanirono i vincoli e
iniziarono gli espropri. Fu, anche in questo caso, coinvolta una
ditta forlivese (Benini) e l'inaugurazione del palazzo degli Uffici
Statali avvenne nel Natale di Roma (21 aprile) del 1937.
Altri progetti sul lato opposto al Municipio rimasero sulla carta.
Vero è che più o meno negli stessi anni si restaurò il “lato
antico”, il palazzo del Podestà (all'imbocco con corso Diaz) pure
ripristinando le antiche graziosità del palazzo Albertini, ad esso
contiguo. Fu poi realizzata la “rotonda” di palazzo Talenti
Framonti e completata la facciata del Suffragio.
Buonasera!
RispondiEliminaHo appena letto ''Quando Forlì era... Cava'' (http://www.forlitoday.it/blog/il-foro-di-livio/quando-forli-era-cava.html). Scrivo per lasciare una testimonianza sul cambio del nome delle vie da paesi a fiumi. Mia madre, che abita alla Cava da quando via Sillaro era via Modigliana spiega che allora non era ancora in uso il Codice di Avviamento Postale (CAP). Quindi capitava che la corrispondenza indirizzata, ad esempio, "via Modigliana, Forlì", venisse recapitata dapprima a Modigliana e, solo dopo aver accertato che l'interessato non abitava in quel comune, giungesse a Forlì. Per evitare equivoci del genere, i nomi di località della provincia di Forlì furono tutti sostituiti da nomi di corsi d'acqua. Infatti, rimangono i paesi fuori provincia, per i quali non si creava il qui pro quo.
Spero di essere stato utile.
Grazie dei bellissimi contributi!
Marcello Landi
Notizie preziose per tutti. Grazie
RispondiEliminaLa nostra storia. Perchè Forlì ha avuto una storia bellissima
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