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Alzi la mano chi sa che a Forlì c'è un fondo di documenti conservato nella Biblioteca comunale nel quale si trovano dati e carte relative a una pionieristica esperienza di birra artigianale in Romagna tra gli anni '30 e gli anni '70 dell'Ottocento. Tra essi spicca un opuscolo, pubblicato a Bologna nel 1861, intitolato “Del luppolo coltivato da Gaetano Pasqui di Forlì”. Da qui, e da altre ricerche in ambito familiare, ho iniziato a prendere sul serio questa vicenda e, nel 2010, ho pubblicato per l'editrice Cartacanta un breve saggio intitolato “L'uomo della birra”.
Gaetano Pasqui, in effetti, sarebbe un mio zio, in quanto gli unici suoi eredi viventi discendono da suo fratello maggiore Giovanni. In poco meno di cento pagine si racconta come questo forlivese nato nel 1807, dopo aver svolto altre mansioni (da ragazzino, per esempio, era barbiere), volle diventare birraio e ci riuscì. Dopo la morte dei genitori Fabrizio e Anna, nel 1835 è definito “possidente” di terreni nell'odierna periferia forlivese che allora era aperta campagna. In essi sperimenta colture originali (l'arachide, la barbabietola da zucchero) e allestisce un'azienda di macchine e strumenti agrari, inventando aratri, modificando carretti e attrezzi per renderli più utili secondo il terreno che avrebbero dovuto lavorare.
A quarant'anni è definito “birraio” ma è difficile per lui far fronte alle ingenti spese che l'importazione del luppolo tedesco o americano comportavano. Così, dopo dodici anni di fabbricazione di birra con luppolo straniero, dal 1847 avvia una piantagione di luppolo selvatico, quello che cresce sulle rive dei fiumi, che “vegeta, prospera e dà ottimi raccolti” come diceva lui, anche ben lontano dalla Germania, nella Romagna terra del vino e del sangiovese. Così acquista una casa nei pressi in un terreno soggetto a frequenti alluvioni quindi assai poco desiderabile. Lì vicino, infatti, passeggiando sulle rive del fiume, aveva individuato delle piantine di luppolo selvatico. Ne raccoglie trenta, le cura, studia un metodo per coltivarle e renderle fruttuose, e in pochi anni se ne contano circa 3.600: non andò oltre solo perché il suo campo era di limitata estensione.
Quindi si premurò di diffondere la coltivazione del luppolo, anche perché in quel tempo le viti erano infestate dalla filossera. Promosse in tutti i modi a lui possibili questa coltura “esotica” e, al contempo autoctona. Inventò perfino degli strumenti per tale coltivazione, come il piantapertiche, il levapertiche, lo zappetto-ronca. Il suo sogno era di vivere in una Romagna, e per esteso, in un'Italia “terra della birra”. Così non fu, il di lui figlio Tito fu tra quelli che riuscirono a trovare il modo di debellare la filossera, e di birra, almeno fino all'avvento del frigorifero, da queste parti non se ne parlò più.
Ad ogni modo, per un certo periodo, Forlì fu la capitale della birra artigianale: quella di Pasqui fu infatti premiata anche a Firenze e a Londra. Nel Regno Unito erano molto interessati al luppolo forlivese, come prova un carteggio con la ditta Rimer datato 1862. Dai dati della Camera di Commercio, inoltre, si evince che nel 1863 furono smerciate dal birraio Pasqui 35mila bottiglie di terracotta. Nel 1867 la birra di Gaetano era l'unica italiana presente all'esposizione alsaziana di Haguenau. Nel 1873 è a Vienna, all'Esposizione Universale. Il lavoro di Gaetano diventa un esempio nell'Italia appena unificata, e si racconta di lui nella rivista “L'Amico dei fanciulli” in cui si legge: “Non si disanimò quando, nel 1855, la melata, immedicabile malattia del luppolo, portò via gran parte del prodotto, ma raddoppiò le cure tanto che nel 1860 fece appello ai coltivatori perché intendessero mostrare i vantaggi di questa nuova industria”. E poi: “Accorsero quindi da varie parti d'Italia molti che prima acquistavano il luppolo al di fuori, ed egli diede istruzioni, somministrò piante, inventò attrezzi atti alla nuova coltivazione, e si poté dire che il luppolo allora erasi fatto italiano”.
Ovviamente, con cotanto curriculum, l'esperienza artigianale del buon Gaetano non poteva suscitare gelosie e invidie: infatti la birra Pasqui si scontrò ben presto con quella dei grandi produttori che adducevano scarso sapore al luppolo coltivato secondo il metodo indicato dal forlivese. Egli non si perse d'animo e fece studiare le proprietà del suo luppolo alle università che ne esaltarono le proprietà organolettiche. Il mondo accademico gli diede ragione. Il 10 maggio 1863, il professor Botter scriveva, infatti: “I nostri birrai pongono ostacolo allo smercio del nostro luppolo, adducendo che non si presta alla fabbricazione della birra come il luppolo germanico: che non ha l'aroma di quello: che non torna usarlo anche se si potesse ottenere a un prezzo assai minore. I birrai hanno torto e per avventura sono dominati da un pregiudizio. L'analisi fatta del luppolo del Pasqui ha riscontrato la stessa quantità di luppolina che si ottiene dal luppolo germanico”. Lo stesso studioso, poi, aggiungeva: “Credo che i nostri birrai partecipino a quella ancor generale trascuranza delle cose nostre, e a quel brutto vezzo di credere che nulla vi sia di buono se viene d'altrove; e lo argomento dalla osservazione, che esperimenti sul nostro luppolo non furono fatti che da pochi i quali avean ragione di sprezzarlo per rivalità di mestiere. Infatti, dalle indagini istituite dai giurati all'Esposizione Italiana si trovò che il luppolo in Italia non fu ancora coltivato che per saggi e senza buone norme di coltivazione. Il solo Pasqui coltivò il luppolo in qualche estensione e con metodo razionale, ma il Pasqui è un birrajo, e traetene la conseguenza per gli altri pochissimi esperimentatori birrai”. Eppure, la “fabbrica” altro non era che una casa di campagna, con una cisterna sotterranea e una canaletta che conduceva acqua da un canale urbano al fiume Rabbi. Vi si lavorava sei mesi all'anno ed erano impiegate circa due persone. Con la sua morte, nel 1879, tutto si fermò.
Dalla partecipazione massiccia e interessata alla Fiera “Mastro Birraio Forlì” svoltasi tra il 28 e il 30 marzo scorsi, si può dire che l'intuizione di Gaetano Pasqui ha anticipato i tempi di 150 anni. Sempre più persone, infatti, si avvicinano a questo mondo fatto di malto e luppolo, provano a produrre in casa (c'è un termine apposito che non userò perché Gaetano non avrebbe gradito questa terminologia “straniera” per una bevanda che non è così straniera come si pensa). Le numerose iniziative degli amici dell'associazione “Unper100”, infaticabili promotori della passione della birra artigianale e domestica, sono la prova che nel capoluogo romagnolo il fermento per la birra non è solo storia, ma è anche presente e potrebbe essere un'identità per rendere il futuro più “biondo”. Ora il marchio della “Birra Gaetano Pasqui – Forlì” è registrato e, prima o poi, tornerà sul mercato. Ovviamente se qualche lettore di questo testo è interessato a offrire suggerimenti, consigli, collaborazioni, può contattare l'autore all'indirizzo: umberto@birrapasqui.it.
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