In un tempo in cui era forte il desiderio di pace tra guelfi e ghibellini, sorse un luogo di culto che nei secoli successivi sarà il motore di un'intensa opera caritativa e assistenziale grazie ai Crociferi, i precursori della Croce Rosse. La chiesa scomparsa della Pace di Forlì, rinnovata dalla testimonianza straordinaria di don Lucio Carrari, accompagnerà gli ultimi istanti di vita dei forlivesi che desideravano avere l'anima in ordine prima di spiccare il salto per l'eternità. Questo testo svela una storia sconosciuta e per molti versi inedita, imperniata in un luogo molto frequentato del centro storico del capoluogo romagnolo. In questo quaderno del Foro di Livio intitolato La Pace in Forlì viene pertanto sviluppata la trama di una vicenda poco o per nulla nota della storia di Forlì. Qui riporto la lusinghiera e amichevole introduzione scritta da Muller Fabbri.
Quella che state per leggere è una gran bella storia. In una Forlì molto diversa da quella odierna, ma dal volto bellicoso, pericoloso, sanguinario e tenebroso, a cavallo tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, si sviluppano le vicende descritte in queste pagine. Gli ingredienti per la più suggestiva trama cinematografica ci sono tutti: un eremita misterioso, un’icona mariana che improvvisamente comincia ad elargire grazie, un prete in odore di santità tra i contemporanei e una Chiesa, quella Chiesa che è fulcro della vicenda e la quale dopo numerose vicissitudini, cambi di proprietari e di planimetria, finisce per scomparire completamente nel nulla, perchè “l’edificio in questione è scomparso, sostituito, fagocitato nel tempo”.
Se poi aggiungiamo che tutti questi elementi si inseriscono nel contesto di nomi e personaggi che ancora oggi possiamo leggere nelle dediche di strade, piazze e borghi della città perchè costituiscono l’ossatura della storia forlivese, si capisce la grande importanza che la piccola Chiesetta della Madonna della Pace ha rivestito, a dispetto del tempo che ne ha voluto cancellare anche l’ultimo mattone residuo. Ma prima di procedure ulteriormente, consentitemi di fare un passo indietro e decisamente più personale. Perchè quella che state per leggere non è solamente la storia di un edificio e dei suoi intrecci, ma è prima di tutto una storia di amicizia. Quella fra il Pasqui (che d’ora in poi mi permetterò di chiamare semplicemente Umberto) e il sottoscritto. La nostra amicizia data indietro negli anni, quando entrambi eravamo parte del Branco Scout del Forlì 3 (Santa Caterina), quello dal fazzolettone rosso come il sangue, per intenderci, lui Akela, io Fratel Bigio. Faccio questa precisazione perchè ci tengo a dire che sin da quegli anni ho avuto modo di sperimentare in prima persona l’incredibile e feconda intelligenza di Umberto, autore di questo quaderno. Una delle cose che ho sempre ammirato di più tra le tantissime qualità di Umberto, è stata la sua capacità di sposare una fervida e fantasiosa creatività con un rigore filologico strettissimo.
Il dato storico prima e al di sopra di tutto. Poi, volendo, si può arricchire la storia di deduzioni ed interpretazioni ma sempre e solo nell’ambito di ciò che il fatto storico permette, senza sgarrare. Perchè, per dirla con le parole dello stesso Umberto: “Talora bisogna avere un approccio quasi dogmatico con certi compilatori di storie: fino a prova contraria hanno ragione”.
Ed è con estremo piacere che ho ritrovato quella dote di Umberto tra le pagine di questo quaderno. Leggendolo, vi sembrerà sin dall’inizio di andare con lui negli Archivi (io l’ho fatto una volta e vi garantisco che è un’esperienza divertentissima) e vederlo emozionato mentre gli viene consegnato un tomo polveroso (che probabilmente non ricorderà nemmeno da quanto tempo e’ rimasto chiuso nello scaffale) ed osservarlo mentre, quadernino e penna a fianco sempre presenti, spulcia tra le righe e riscopre una traccia, un indizio, una prova storica che gli permette di iniziare a ricostruire la trama di ciò che è successo. E ad un tratto, tra il silenzio austero di quelle mura, vi chiamerà per dirvi: “Guarda qui cosa ho trovato!” E il suo entusiasmo diventerà contagioso. Ma tornando a noi: i fatti prima di tutto. E i fatti parlano chiaro. Ad un certo punto, nella storia forlivese, tra le diatribe di Guelfi e Ghibellini, è spuntata una Chiesetta di Santa Maria della Pace, ma di quell’edificio non è restato più niente. Neppure il numero civico. Che può essere solo evinto da una semplice (quanto astuta) proporzione matematica che Umberto ci regala e ci permette di avere almeno un’idea di dove la Chiesetta si trovasse. E dunque dov’è finita questa Chiesa? La risposta nelle pagine a seguire. Un’ultima riflessione vorrei dedicarla ai personaggi che animano questa vicenda. I veri protagonisti sono “uomini semplici, piccoli, nascosti perfino dalla storia anzi negletti”. E sono lì “con i loro limiti, con i loro difetti, e anche con i loro rosari, con le loro croci, con la loro fede”. Si va dalle “nobildonne” che guardano “con terrore l’abbandono del mondo” ai “poveracci all’ospedale, ignorati da tutti, tenuti lontano”, come la povera “Teresa Maroncelli” che Umberto riporta nella “hit parade” (mi si passi il termine) degli infermi che sono stati visitati dai Padri che prestavano servizio ospedaliero. Non ci è dato di sapere la natura della sua malattia (confesso che da medico muoio dalla curiosità di saperlo) perchè questo non è il punto.
Il catalogo (compilato da Umberto in maniera minuziosa e consegnatoci in questo scritto) non ha alcuna valenza epidemiologica o scientifica, ma vuole sottolineare che è attorno all’Assistenza (quella con la maiuscola) che “s’impernia la missione di questi uomini”. E tra tutti questi sacerdoti che hanno fatto dell’Assistenza la loro ragione di vita, si erge la figura di don Lucio Carrari, nato il primo venerdì di Quaresima del 1690. Confesso di aver controllato io stesso che quel 10 di febbraio del 1690 fosse il primo venerdì di Quaresima. L’ho fatto non perchè avessi dubbi sulla veridicità di questa informazione ma perchè stentavo a credere che di questo sacerdote si sapesse perfino questo dettaglio e addirittura l’ora di nascita e di morte, ma non ci fosse pervenuto niente: neppure una traccia della sua tomba. Credo di non sbagliare affermando che questo quaderno contenga la biografia più completa che sia mai stata scritta su don Lucio Carrari, morto in odore di santità eppure completamente dimenticato ai giorni nostri. Lui aveva capito che “si può prendersi cura di un moribondo facendo in modo che si senta un’anima viva fino all’ultimo”. Nelle pagine di Umberto leggerete della sua formazione e della sua vita e riuscirete a seguire lo scorrere di quella sua vocazione santissima sgorgata sin dalle prime esperienze dell’infanzia.
E insieme alla vita di don Lucio capirete anche come si intrecciarono le vite di personaggi come i Numai, i Morattini e Cesare Hercolani. Pensate che scoprirete anche chi sono i Novanta Pacifici di cui mi sono sempre chiesto, sin da quando visitai per la prima volta la piazzetta a loro dedicata, e capirete cos’è la Magalotta e l’importanza dell’impronunciabile fra Sinforiano. Terminato di leggere questo libretto, mi sono ritrovato per qualche minuto in silenzio. A ripensare all’importanza di ciò che testimoniamo e lasciamo in questo mondo, e a come la vera storia sia proprio questa: fatta di azioni verso gli altri, di testimonianze di vita affidate ai posteri. Il tempo distrugge i mattoni e il cemento, ma non ciò che siamo stati. E questo, si badi bene, sia che abbiamo lasciato un’impronta positiva che negativa durante questo nostro cammino terreno. Leggendo la storia della Chiesetta di Santa Maria della Pace mi è anche venuto in mente un film che adoro: “Pomodori Verdi Fritti”. Nella scena finale, la telecamera chiude sul “Whistle Stop Café”, il piccolissimo ristorantello da nulla al centro della vicenda e si constata come sia strano che in un posto così piccolo ed insignificante si siano intrecciate le vite di così tante persone. Ecco, la Chiesetta della Madonna della Pace non è stata affatto piccola o insignificante e le pagine di Umberto servono proprio a dimostrare il contrario, però mi piace sottolineare in chiusura, questo parallelismo proprio per mettere a confronto l’abisso che c’è tra la materialità di un edificio e tutto ciò di cui è stato fulcro. Ed in futuro, se passerete tra quelle pietre di “corso Vittorio Emanuele, ora della Repubblica” soffermatevi se non altro a riflettere che proprio lì, tanti anni fa sorgeva un piccolo edificio senza alcuna pretesa architettonica, tra le cui mura ci si preoccupava solamente “che l’anima fosse in ordine, pronta per spiccare il salto”.
Il libro, pubblicato nei giorni scorsi, è disponibile qui in versione cartacea, ma esiste anche nella
versione elettronica. Il 21 dicembre 2022, una copia è stata donata alla sede forlivese dell'Archivio di Stato.
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