Il
racconto Insalata di Vento è già stato pubblicato dalla casa
editrice Kimerik nel 2005. In questa veste il testo viene riproposto
dopo l’uscita dal catalogo.
Ecco
l'ultima versione (2013/14): l'immagine di copertina è di Giorgio
Pondi.
Dove trovarlo?
Ripubblicare
un’opera letteraria, specialmente un romanzo o un racconto, com’è
per quest’opera di Umberto Pasqui, significa che l’autore deve
avere una grande fiducia su ciò che aveva in precedenza pubblicato.
Nella fattispecie, circa Insalata
di vento,
il motivo della fiducia credo sia talmente palese che, per averne
riscontro, basti leggere il racconto anche di malavoglia, con molta
superficialità. Quantunque, conoscendo quest’autore, venga più
opportunamente da osservare che chissà quanti altri lavori egli
potrebbe pubblicare ex novo per argomento e trama. Ma, si sa, le cose
riviste ed aggiornate, proprio per una logica di work
in
progress,
esprimono il massimo sotto l’ottica d’una individuale
perfettibilità. E siccome, lo s’evince dal suo peculiare modello
di scrittura che ne certifica un linguaggio seriamente impegnato,
colto, pulito, colorato, icastico, soprattutto chiaro ed efficace,
Umberto Pasqui ama parecchio la ricerca d’una sua perfezione
narrativa, e non stupisce affatto che voglia riproporre pubblicazioni
già notevolmente valide alla loro primissima uscita.
Ma
che dire, nello specifico, circa questo racconto?
Ebbene, intanto è
opportuno prendere atto che incanalare nella categoria “racconto”
le produzioni narrative di U. Pasqui sia alquanto azzardato. È, la
sua, una tipologia molto sui
generis.
Per prima considerazione ci si deve mettere in sintonia con la
constatazione che la realtà letteraria che le righe traspirano è
improntata alla trasgressione. Non è uno spingersi al di là di
regole codificate da leggi istituzionali, sociali; ma è un andare
oltre le regole d’una quotidiana ordinarietà scritturale, questo
sì. Espediente evidente a riguardo sia del fattore naturalistico
quanto di quello idealistico: alterazione degli elementi della natura
e diversificazione d’un medio modus
operandi,
caratteristica dell’umano, usuale rapportarsi all’effettività.
Il
titolo di per sé è già in grado d’esprimere tale ricerca, un
percorso anelante ad una diversità che non è di tutte le menti.
Poi, abbracciando
l’incipit e finendo di leggerne solo poche righe, a ridosso del
termine della prima delle settantatré scansioni, si legge che il
giovane protagonista, Dante, si prefigge di festeggiare il nuovo anno
in una maniera del tutto inusuale. È un capodanno palindromo d’un
non specificato anno ma molto verosimile 2002, e perciò un capodanno
originale già nei suoi prodromi. Capodanno diversamente programmato
rispetto a quelli passati nell’arco temporale dei ventuno anni del
protagonista, «stanco della sua normale normalità». Per cui si
propone in
primis di
sfidare la superstizione, invitando per i festeggiamenti, a casa sua,
tredici amici: si badi a quel numero tredici. Quindi, tra le sue
altre idee di cambiamento, decide di «non
indossare nulla di rosso»,
contravvenendo ad una consuetudine tra le più diffuse. Dopo di che
ed immediatamente la narrazione penetra nella rincorsa ad una
diversità a trecentosessanta gradi, che assume ruolo tematico
imprescindibile nell’economia del narrato.
La
negazione del colore rosso, oltre il breve passo che darebbe
tradizionale colorazione alla cronaca del capodanno, terrà ancora
banco, d’ora in poi però riconquistando un suo positivo
significato, appartenendo alla caratteristica cromatica dei capelli
d’una giovane ragazza («fulvicrinita») che, nel giro di poche
ore, perseguiterà in maniera ossessiva l’orbita visiva di Dante. È
Clotilde quella ragazza. Sorta di fattucchiera suo malgrado, che
dagli occhi, per chi abbia la fatale fortuna-sfortuna di
penetrarglieli, emana il mistero d’una sottostante vita.
Realtà-irrealtà che s’espande nell’estenuante sogno d’un
ugualmente lungo sonno nel quale può risolversi, dissolvendosi
oppure perfezionandosi, quell’effettiva esistenza di chi ne sia
inconsapevolmente partecipe.
Ed
altrettanto velocemente, incanalando la storia che accomuna Dante e
Clotilde nella godibile quanto straordinariamente artificiosa scia
del sogno, che inverte o comunque scombussola i parametri della vita
quotidiana, la trasgressione del comportamento diviene trasgressione
della stessa realtà. Si penserebbe d’acchito ad una mera
distorsione che la proiezione onirica è generalmente capace
d’apportare rispetto alle concrete motivazioni ed emozioni del
reale. A quella destrutturazione molto prossima al vissuto, sia
passato che futuro, che normalmente ogni dormiente sogna, uomo o
donna, adulto o bambino che siano. Invece non è del tutto così. La
fase onirica che Pasqui descrive s’insinua nelle stupefacenti
barriere che racchiudono fiaba e mito, catapultando il lettore nel
paradossale «silenzio assordante» d’una Città Silente in cui la
ninfa Eco ed il ciclope Bronte si confondono con una miriade di
personaggi fiabeschi, irreali proiezioni, meno che origami, anche
quando nell’illustrazione corrispondano a potenziali figure d’un
verosimile quotidiano. Ingombranti mostri, titanica realizzazione più
di flora che di fauna. E, in parallelo, simil-esseri umani che,
ognuno per una sua fisica, ben palese peculiarità corporea, icastico
indice somatico e caratteriale, assurgono a monarchi o, viceversa, a
sottomessi servitori. O, ancora, alati esserini che possono risultare
catalitici, enzimatici fattori d’amore o all’opposto d’odio e,
di conseguenza, di finale vittoria o di parziale sconfitta. Perché,
alla fine, lo si sa, in ogni edificante favola trionfa sempre
l’amore, inteso come giustizia o catarsi.
Come in altre occasioni
ho rilevato in U. Pasqui affinità con la letteratura di Italo
Calvino e di Carlo Cassola, qui addirittura, pur confermando tale
emulazione scrittoria, andrei oltre, richiamando, a suffragio
dell’evidentissima originalità del nostro autore, altresì
l’ingegnosa, avventurosa letteratura di Giulio Verne. Di fatto
emerge, limpida e favolosa, una capacità geo-architettonica, con la
quale egli abbozza territori, talora sotterranei, e relative
costruzioni, edifici e marchingegni talmente sorprendenti per
fantasia e verosimiglianza tali da far rimanere a bocca aperta
qualsiasi lettore, meravigliato dall’ingegno, folgorato dalla
fantasia.
A
proposito del Lettore, questa scrittura è capace di coinvolgere sia
gli adulti sia i piccoli, come pochi scrittori sanno ed hanno saputo
fare, prostrandosi ad una capienza davvero onnicomprensiva
dell’interesse e della conoscenza semantica. Se qualche parola
possa non essere compresa appieno dai più piccoli fruitori, questi
ultimi possono essere soccorsi pacificamente dalla linearità
dell’esecuzione della trama, chiara, cristallina, consequenziale,
appassionata, puntualmente coerente.
Magari il lettore adulto,
erigendosi nella sua maggiore padronanza culturale, saprà cogliere
il parallelismo di questo Dante del Duemila con quello trecentesco
dell’Alighieri, che, grazie all’arcinota sua Divina
Commedia,
si spinge, piuttosto che alla ricerca d’una sua Clotilde a quella
di Beatrice, in un immaginario oltremondo,
transitando dall’Inferno
al Paradiso,
per una sequela di complicati gironi e di decantati geomorfologici
percorsi, anziché trovarsi nell’oltremondo
di questo Umberto Pasqui più incline alla favola che alla teologia,
pur facendo emergere di quest’ultima note non indifferenti.
Il
suo entusiastico sogno che, concentrato in una dormita, racconta
«l’avventura di una notte che vale una vita», incapsulato com’è
nella teorica spora d’un eterno presente che, primaria essenza
della fiaba, incorpora i significati d’ogni ossimoro
dell’esistenza, s’erge comunque oltre la ricetta d’un’insalata
di vento
che racchiude gli essenziali semi del bene e del male e soprattutto
dell’amletico dilemma dell’essere e del non-essere, facendone una
determinante miscela di vittoria etica e sociale, e ancora una volta
realizza una benvenuta morale della favola, che, a ben pensarci,
corrisponde ad una sopraelevata, benvenuta filosofia di vita. Alla
fin fine, anche se non esprime la sublime teologia dantesca, questa
piacevole narrativa di Umberto Pasqui ha in ogni caso il gusto d’un
utile insegnamento di vita.
Emilio Diedo
(Prefazione di "Insalata di vento")
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