lunedì 25 agosto 2014

Insalata di vento


Il racconto Insalata di Vento è già stato pubblicato dalla casa editrice Kimerik nel 2005. In questa veste il testo viene riproposto dopo l’uscita dal catalogo.

 
Ecco l'ultima versione (2013/14): l'immagine di copertina è di Giorgio Pondi.
 

 
 

Dove trovarlo?
 
Ripubblicare un’opera letteraria, specialmente un romanzo o un racconto, com’è per quest’opera di Umberto Pasqui, significa che l’autore deve avere una grande fiducia su ciò che aveva in precedenza pubblicato. Nella fattispecie, circa Insalata di vento, il motivo della fiducia credo sia talmente palese che, per averne riscontro, basti leggere il racconto anche di malavoglia, con molta superficialità. Quantunque, conoscendo quest’autore, venga più opportunamente da osservare che chissà quanti altri lavori egli potrebbe pubblicare ex novo per argomento e trama. Ma, si sa, le cose riviste ed aggiornate, proprio per una logica di work in progress, esprimono il massimo sotto l’ottica d’una individuale perfettibilità. E siccome, lo s’evince dal suo peculiare modello di scrittura che ne certifica un linguaggio seriamente impegnato, colto, pulito, colorato, icastico, soprattutto chiaro ed efficace, Umberto Pasqui ama parecchio la ricerca d’una sua perfezione narrativa, e non stupisce affatto che voglia riproporre pubblicazioni già notevolmente valide alla loro primissima uscita.
Ma che dire, nello specifico, circa questo racconto?
Ebbene, intanto è opportuno prendere atto che incanalare nella categoria “racconto” le produzioni narrative di U. Pasqui sia alquanto azzardato. È, la sua, una tipologia molto sui generis. Per prima considerazione ci si deve mettere in sintonia con la constatazione che la realtà letteraria che le righe traspirano è improntata alla trasgressione. Non è uno spingersi al di là di regole codificate da leggi istituzionali, sociali; ma è un andare oltre le regole d’una quotidiana ordinarietà scritturale, questo sì. Espediente evidente a riguardo sia del fattore naturalistico quanto di quello idealistico: alterazione degli elementi della natura e diversificazione d’un medio modus operandi, caratteristica dell’umano, usuale rapportarsi all’effettività. 
Il titolo di per sé è già in grado d’esprimere tale ricerca, un percorso anelante ad una diversità che non è di tutte le menti.
Poi, abbracciando l’incipit e finendo di leggerne solo poche righe, a ridosso del termine della prima delle settantatré scansioni, si legge che il giovane protagonista, Dante, si prefigge di festeggiare il nuovo anno in una maniera del tutto inusuale. È un capodanno palindromo d’un non specificato anno ma molto verosimile 2002, e perciò un capodanno originale già nei suoi prodromi. Capodanno diversamente programmato rispetto a quelli passati nell’arco temporale dei ventuno anni del protagonista, «stanco della sua normale normalità». Per cui si propone in primis di sfidare la superstizione, invitando per i festeggiamenti, a casa sua, tredici amici: si badi a quel numero tredici. Quindi, tra le sue altre idee di cambiamento, decide di «non indossare nulla di rosso», contravvenendo ad una consuetudine tra le più diffuse. Dopo di che ed immediatamente la narrazione penetra nella rincorsa ad una diversità a trecentosessanta gradi, che assume ruolo tematico imprescindibile nell’economia del narrato.
La negazione del colore rosso, oltre il breve passo che darebbe tradizionale colorazione alla cronaca del capodanno, terrà ancora banco, d’ora in poi però riconquistando un suo positivo significato, appartenendo alla caratteristica cromatica dei capelli d’una giovane ragazza («fulvicrinita») che, nel giro di poche ore, perseguiterà in maniera ossessiva l’orbita visiva di Dante. È Clotilde quella ragazza. Sorta di fattucchiera suo malgrado, che dagli occhi, per chi abbia la fatale fortuna-sfortuna di penetrarglieli, emana il mistero d’una sottostante vita. Realtà-irrealtà che s’espande nell’estenuante sogno d’un ugualmente lungo sonno nel quale può risolversi, dissolvendosi oppure perfezionandosi, quell’effettiva esistenza di chi ne sia inconsapevolmente partecipe. 
Ed altrettanto velocemente, incanalando la storia che accomuna Dante e Clotilde nella godibile quanto straordinariamente artificiosa scia del sogno, che inverte o comunque scombussola i parametri della vita quotidiana, la trasgressione del comportamento diviene trasgressione della stessa realtà. Si penserebbe d’acchito ad una mera distorsione che la proiezione onirica è generalmente capace d’apportare rispetto alle concrete motivazioni ed emozioni del reale. A quella destrutturazione molto prossima al vissuto, sia passato che futuro, che normalmente ogni dormiente sogna, uomo o donna, adulto o bambino che siano. Invece non è del tutto così. La fase onirica che Pasqui descrive s’insinua nelle stupefacenti barriere che racchiudono fiaba e mito, catapultando il lettore nel paradossale «silenzio assordante» d’una Città Silente in cui la ninfa Eco ed il ciclope Bronte si confondono con una miriade di personaggi fiabeschi, irreali proiezioni, meno che origami, anche quando nell’illustrazione corrispondano a potenziali figure d’un verosimile quotidiano. Ingombranti mostri, titanica realizzazione più di flora che di fauna. E, in parallelo, simil-esseri umani che, ognuno per una sua fisica, ben palese peculiarità corporea, icastico indice somatico e caratteriale, assurgono a monarchi o, viceversa, a sottomessi servitori. O, ancora, alati esserini che possono risultare catalitici, enzimatici fattori d’amore o all’opposto d’odio e, di conseguenza, di finale vittoria o di parziale sconfitta. Perché, alla fine, lo si sa, in ogni edificante favola trionfa sempre l’amore, inteso come giustizia o catarsi.  
Come in altre occasioni ho rilevato in U. Pasqui affinità con la letteratura di Italo Calvino e di Carlo Cassola, qui addirittura, pur confermando tale emulazione scrittoria, andrei oltre, richiamando, a suffragio dell’evidentissima originalità del nostro autore, altresì l’ingegnosa, avventurosa letteratura di Giulio Verne. Di fatto emerge, limpida e favolosa, una capacità geo-architettonica, con la quale egli abbozza territori, talora sotterranei, e relative costruzioni, edifici e marchingegni talmente sorprendenti per fantasia e verosimiglianza tali da far rimanere a bocca aperta qualsiasi lettore, meravigliato dall’ingegno, folgorato dalla fantasia.
A proposito del Lettore, questa scrittura è capace di coinvolgere sia gli adulti sia i piccoli, come pochi scrittori sanno ed hanno saputo fare, prostrandosi ad una capienza davvero onnicomprensiva dell’interesse e della conoscenza semantica. Se qualche parola possa non essere compresa appieno dai più piccoli fruitori, questi ultimi possono essere soccorsi pacificamente dalla linearità dell’esecuzione della trama, chiara, cristallina, consequenziale, appassionata, puntualmente coerente.
Magari il lettore adulto, erigendosi nella sua maggiore padronanza culturale, saprà cogliere il parallelismo di questo Dante del Duemila con quello trecentesco dell’Alighieri, che, grazie all’arcinota sua Divina Commedia, si spinge, piuttosto che alla ricerca d’una sua Clotilde a quella di Beatrice, in un immaginario oltremondo, transitando dall’Inferno al Paradiso, per una sequela di complicati gironi e di decantati geomorfologici percorsi, anziché trovarsi nell’oltremondo di questo Umberto Pasqui più incline alla favola che alla teologia, pur facendo emergere di quest’ultima note non indifferenti.
Il suo entusiastico sogno che, concentrato in una dormita, racconta «l’avventura di una notte che vale una vita», incapsulato com’è nella teorica spora d’un eterno presente che, primaria essenza della fiaba, incorpora i significati d’ogni ossimoro dell’esistenza, s’erge comunque oltre la ricetta d’un’insalata di vento che racchiude gli essenziali semi del bene e del male e soprattutto dell’amletico dilemma dell’essere e del non-essere, facendone una determinante miscela di vittoria etica e sociale, e ancora una volta realizza una benvenuta morale della favola, che, a ben pensarci, corrisponde ad una sopraelevata, benvenuta filosofia di vita. Alla fin fine, anche se non esprime la sublime teologia dantesca, questa piacevole narrativa di Umberto Pasqui ha in ogni caso il gusto d’un utile insegnamento di vita. 
 
Emilio Diedo
(Prefazione di "Insalata di vento") 

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