Il
racconto Odoacre
sconosciuto
è già stato pubblicato dalla casa editrice Prospettiva nel 2002. In
questa veste il testo viene riproposto dopo l'uscita dal catalogo.
Ecco
l'ultima versione (2014): l'immagine di copertina è di
Giorgio Pondi.
Ecco dove trovarlo:
Intraprendere una lettura quando si sa che a scrivere è Umberto Pasqui lo si fa ben volentieri. Prima ancora d’entrare nel vivo della trama ci si predispone ad un prioritario entusiasmo che anticipa la certezza di poter essere attivamente-passivamente (pur volendolo a priori ci s’incaglia nella piacevolissima tirannia d’un assuefacente coinvolgimento) assorbiti dal piacere d’un linguaggio da decifrare attentamente.
Anzitutto
non si può mai sapere dove voglia andare a parare la fantasia di
quest’originale, avvolgente autore. Anche qualora sembri esordire
nella mera puerizia propinante la mediocre narrazione d’un trito o
quanto meno poco diversivo quotidiano, che si potrebbe prestare ad
una proiezione d’idea alquanto limitativa, irrilevante dal punto di
vista letterario, non passa il tempo di leggere la primissima pagina
che, ribadendo le sue doti letterarie e, di conseguenza, smentendo lo
scialbo inizio, ci si accorge già degli eccitanti, invitanti
prodromi che ne seguiranno. Effetto che potrebbe apparire nello
specifico di questo revisionato racconto se non si facesse dovuta
mente locale al titolo. Titolo, questo, ambiguo nel cogliere
indicazioni che rivelino un concreto anticipo del narrato. Ambiguo e
purtuttavia emblematico. Non solo per quello sconosciuto,
attributo che
ne allarga la prospettiva, inducendo di per sé a riflettere. Ma
soprattutto perché, proprio in forza di tale sua conclamata
anfibologia, si presta ad essere letto come titolo multimetaforico,
implicante un primario, ed appunto risolutivo, scervellamento che
porta, nella sua intuibile scomposizione, ad una trivalente
indicazione. Ossia: Odoacre
pensabile come Odo
(prima persona presente del
verbo sentire) + acre
(aggettivo funzionale ad un
addirittura triplo approccio dei sensi, concernente il gusto o
sapore, l’odore nonché l’aspetto caratteriale d’una persona).
Laddove riterrei che la vera,
larga idea stia nell’amplificazione del senso dell’olfatto, che
forse, sul piano intuitivo, è la meno scontata.
Probabilmente,
se non fosse sembrato troppo artefatto, Pasqui avrebbe potuto
inserire un inizio titolo del genere: Odo(re)acre,
quale univoca metafora, blandamente sinestesia, rappresentativa dei
lutti dei tanti fratelli (ben undici) subiti dal protagonista, in
aggiunta ad un’esistenza grama patita sotto la dittatura delle due
ulteriori sorelle maggiori, gli unici consanguinei legami ancora a
lui coesistenti.
Già
questo prioritario suggerimento, promanante dal titolo, mette, a
scanso d’equivoci, il diligente lettore nell’ottimale stato
d’animo che avvalla la lettura del libro. In quanto, conoscendo
anche la tipologia narrativa del nostro scrittore, s’intuisce che
al di là d’un’eventuale apparente incipit poco incisivo, da
ritenersi volutamente tale, il titolo preannuncia un improvviso,
perentorio e sostanziale, cambio di registro scenico.
E,
proprio così, nel metodico proseguire del racconto emerge presto un
altro fattore di stimolo alla lettura: l’ignoranza (ridondante
timbro col quale Pasqui vuole sollecitare l’attenzione, perché, da
qui in poi, sarà fattore decisivo a marcare l’inattesa svolta
della trama) della ferrea essenza volonterosa di Odoacre, che
risalta, in forte controtendenza, nel disegno temperamentale del
personaggio. Da una parte senza spina dorsale e dall’altra assiduo
artefice dell’agire, nella parte più affabulante della storia. Un
eroe-manichino, o se vogliamo una sorta di cane fedele, un robot
tutto cuore e braccia, privo però d’una sua cerebrale autonomia,
capace solo d’obbedienza e sottomissione. Apparenza però che
scaturisce nell’iniziale presentazione del personaggio, che
comunque ne riguarda il primo squarcio di realtà, completamente
scevra d’ogni suo indipendente coinvolgimento. Odoacre e le sue due
sorelle schematizzano in maniera perfetta quel rapporto psicologico
in cui un individuo, perdente (ossia Odoacre) è succube, ed almeno
un altro individuo, vincente (le due sorelle) ne è incube.
È
perciò evidente come Pasqui avrebbe potuto ulteriormente riscrivere
il titolo: Odoa(la)cre
[leggasi più scorrevolmente:
odo-alacre] sconosciuto.
Dove l’attributo sconosciuto
calzerebbe a pennello. Tuttavia sta bene così! È altresì evidente
che non possano sprecarsi tante, troppe, osservazioni solo sul titolo
d’un racconto. Fatto sta che quest’ultima presunta
caratteristica, dell’alacrità, che mette in luce una certa
potenzialità del personaggio principale, entrando nel vivo
dell’intreccio, sarà determinante nel rivoluzionare la personalità
di Odoacre!
In
ogni caso, la seconda parte del titolo (sconosciuto)
potrà essere meglio riconsiderata nel momento in cui la cupidezza
delle possessive sorelle sarà scalzata dall’opposto libertario
sentimento d’amore che Livia gli tributerà. Guarda caso, proprio
in quel mentre, il nome Odoacre
diventa nel narrato, grazie a Livia, Dodè,
sul quale nome non sembra più possibile azzardare ipotesi. Nome
libero da qualsiasi interferenza, degno d’una pienezza tutta sua.
Sarà
quando l’originaria dimensione del narrato incomincerà a
stratificarsi, assumendo gli usuali (con riferimento al nostro
autore) risvolti onirici e nel contempo fabulatori, che finalmente
astrarranno dall’opaca realtà ed assurgeranno invece ad immaginosa
quanto distraente (significando ‘coinvolgente’) finzione.
La
metamorfosi di Odoacre avviene navigando, imbarcatosi sulla sua
piccola goletta (che nell’inventivo immaginario del protagonista è
uno “sciabecco”).
Imbarcazione
dal doppio autorevole nome di donna, che incarna la forza genetica
d’una nuova maternità: Teodolinda (nome impostole da un parente) e
Amalasunta (nome che Odoacre avrebbe preferito). Erano, queste, nella
storia del medioevo, due donne barbare, longobarda la prima,
ostrogota la seconda, le quali ebbero l’opportunità di governo
interinale nelle veci dei relativi sovrani. Chiaro simbolo d’un
grembo materno di rinascita.
Odoacre,
nel suo svagato navigare, si perde e s’inoltra nella transitoria
favola che gli cambierà la vita, intimamente.
Livia
lo segue per conto suo ed anche lei si perde in balia del mare.
Alla
fine saranno ritrovati insieme, issati a bordo dalla rete
d’un’imbarcazione di pescatori, sottratti ad un’alga che li
aveva fagocitati e che per sette
giorni li aveva
tenuti incapsulati nel suo involucro.
Sette
giorni, lo stesso periodo della divina creazione: proprio il settimo
giorno Dio si riposò. Ulteriore indice di catarsi. E si badi bene
che la parentesi in cui subentra la favola, o comunque l’immaginario,
è collocata in un limite di tempo ben più ampio. Un mondo il cui
anno solare è misurato da atipiche stagioni, assolutamente irrelate
e che costruiscono spazi temporali altrettanto fantasiosi. Non a caso
Pasqui suddivide il contesto del racconto in quadranti
piuttosto che in capitoli.
Di
conseguenza anche gli immaginari mondi, isole, loro fusioni,
montagne, promontori, insenature, che si srotolano nelle pagine di
questo fantastico libro è inutile anticiparlo quanto siano dissimili
dal mondo reale. Chi conosce Umberto Pasqui lo può agevolmente
immaginare; chi non lo conosce ancora lo legga e lo capirà. Idem per
i personaggi.
Lasciamo
perdere i luoghi ma non trascuriamo invece i personaggi.
Sia
gli uni che gli altri, come di consueto, nei nomi identificativi
assommano altrettante loro peculiarità, spesso contrapposte,
ossimori della realtà, e, specialmente le figure animate, chimere
dell’esistenza. A parte il realistico, necessario “entourage”
umano che fa da sponda ad Odoacre, praticamente Livia e le undici
ombre dei suoi defunti fratelli, che appaiono nel tragitto della sua
avventura odissea chiedendogli il favore d’aiutarle a superare il
limbo della terrena esistenza, le altre figure, quelle precisamente
deducibili dalle trame irreali, si possono definire, piuttosto che
personaggi, ‘creature’. E mentre le prime, figure di persone
realmente esistenti, in una divisione per classi di qualità o di
ruoli, ci pervengono tramite l’ottica distorsiva dell’alterato
ego di Odoacre, col quale ne avverte anche l’irrimediabile curiosa
sorte, tali da essere inquadrati in un vissuto omologo alla relativa
definizione (“contromadri”, “frettolenti”, “sivergogni”,
“giasentiti”, “ristorrendi”, “piangineve”, “telèbeti”,
“parlinvano”, “impegnanti”, “sparachiasso”,
“ubisproloqui”, “convadenti”, “precarelle”,
“esteridioti”), invece le seconde figure sono esseri impensabili
quanto ad una loro possibile effettività. Elenchiamone alcune:
“Gheppio Caracalla”; “Domitilla”, fanciulla che diventa
regina per aver individuato il perfetto centro acustico dell’Isola
delle due Campane;, “Vittoria Mareggiata”; il pesce-filosofo
“Nereo”; il trasformista “Martagone del Maggiociondolo”;
“Scorpione
Elefante”;
“Eliopanto”, maestro (pensate un po’) di “tuttologia
pressappochistica” che agli amici, invece di dare del tu, dà
dell’io (sì, avete capito bene!); il gigantesco, bellicoso
lombrico “Cercarogne del Colle Bagnato” e “Barsanofrio”, da
quest’ultimo di spada infilzato e tranciato in due, nonché suo
padre “Crisobulo”; la “libellula gigante”, quale mezzo
d’aerea locomozione; ed una serie di pesci elettrici, suddivisi in
22 specie, e
altre creature marine tra cui
“placide ascidie”, “minacciosi gigantostraci”, dalle chele
spaventose, ed i “narvali”, conduttori di “caporemi”, pirati
in senso buono (che fanno del bene anziché il contrario) delle Acque
di Ghiaccio, sorta di sirene nane…
Affondando l’analisi nei valori, nel
concludere, si può ancora asserire che con questo suo gioioso
racconto, in cui il concetto escatologico non assurge solo a limite
di paragone ma ne è l’essenza, Umberto Pasqui vuole affiancare ad
ogni essere umano, per la sua parte individuale negativa
dell’esistere, un barlume di speranza che, pur talora riducendosi
al miserrimo lumicino, è opportuno ed auspicabile che non si spenga
mai. L’ennesima lezione proveniente dal nostro autore, che, in
tutta umiltà, vuole suggellare in questo libro a dir poco
paradigmatico.
Emilio
Diedo
(Prefazione
di “Odoacre sconosciuto”)
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