venerdì 10 aprile 2020

Il bambino rosso

L'uovo di Pasqua porterà questo mio racconto, intitolato "Il bambino rosso". Non aggiungo altro, lascio parlare Daniele Boldrini nella sua prefazione:


Umberto Pasqui ci ha abituati alle escursioni nei luoghi della fantasia, e talora della favola, ma questa volta, nell’ultimo suo lavoro che ho qui sottomano, un lungo racconto, dovendo rimanere confinato, egli come tutti, alle quattro mura di casa, questa sua dimensione, oltre che rendersi utile ai lettori che debbono rimanersene anch’essi reclusi, e han dunque come ottima scelta di dedicarsi per l’appunto alla lettura, ha potuto dilatarsi a considerazioni all’apparenza estranee alle cose letterarie, che toccano qui le mediche questioni, nelle quali peraltro egli mostra di cavarsela bene (attribuendo ai fatti una concretezza e una veridicità scientifica laddove la Malattia «rubava il gusto delle cose, il sapore, l’olfatto») ma che pure non rinunciano al gran servizio reso alla letteratura. Una volta naturalmente che si sappia che l’autore, di professione insegnante, studi di Giurisprudenza alle spalle, esperto di cose varie (e per chi non lo sapesse seguitante una tutta familiare tradizione birraria), non è certamente nuovo al racconto, così come al romanzo, così come al saggio e alla poesia, e anzi mi scuso d’una ‘presentazione’ di cui i tanti che lo conoscono, già dalle sue molteplici prove sull’Osservatorio letterario, oltre che dalle sue singole pubblicazioni poetiche e in prosa, potevano non aver bisogno, essi sapendo, me compreso da tempo suo estimatore, quanto sia fra le sue varie attività quella votata alle belle lettere la più dipendente dal demone della scrittura, dal quale egli mostra indubbiamente d’essere soggiogato, specie nei momenti che gli lascian liberi gli impegni di lavoro.
Così considerato, lo scritto di cui parlavo poc’anzi, testé uscito e intitolato Il bambino rosso, a mio parere non è da vedersi come uno dei tanti prodotti ottenuti per mano dei vari esponenti della nostra intellettualità e che ci tempestano d’un infinito materiale il quotidiano andare, quantunque vada accolto con ogni benevolenza, giacché di ogni accadimento, e questo nel caso attuale è d’alta complessità e coinvolgente un intero popolo, è un gran bene che si dica, si parli e soprattutto si scriva, anche per un domani in cui gli scritti rimarranno, ma, tornando a Pasqui, come un qualcosa di più che viene sprigionato dalla penna arguta d’uno scrittore che coglie il parallelismo fra le necessità d’una condotta tutta pragmatica, vincolata al contenimento d’una malattia e dunque a regolamenti e a imposizioni, e il bisogno di chi deve attenervisi di fuggire o come di estraniarsi, di riprendere una normalità del vivere.
La quale non di sola scienza (di cui posso far valere il mio titolo e le mie vedute essendo io medico e avendone esercitato il mestiere) è fatta ma anche del desiderio di tornare sui propri passi e di mantenere attorno a sé i giusti spazi dell’immaginazione e del sogno, oltre che l’altrui vicinanza, senza i quali la vita è una ben trista cosa, credendo in tanta affermazione che ne concordino i proponimenti dell’autore ma anche i suoi stessi princìpi; che per esempio esprime una delle sue recenti poesie che è Impalcature:«Come rendere i sassi di un muro/ più saldi, più forti?/Abbracciandoli./Come rendere un’anima e un corpo/ più saldi, più forti:come?/Abbracciandoli.» (in L’incantamento-Poesie, edizione O.L.F.A. 2017) ora abbandonato il tono più realistico e crudo (se non crudele, se non horror, pur nella romantica vitalità) che è in uno  dei suoi “vecchi” racconti intitolato La statua del sommo anatomico (in Trenta racconti brevi, O.L.F.A., 2010) nel quale un vecchio medico, già ridotto in statua di pietra, deve fare i conti con le spoglie di se stesso.

Ma lungo l’intero testo del Bambino rosso la parola abbraccio, come fosse soprattutto di questo che la malattia che spazza le strade ha privato l’umanità, torna più volte, quasi che esca dalla penna dell’autore senza che egli stesso se ne avveda come glielo dettasse la personale aspirazione al ritorno a una condizione del bene, grazie quel gesto, l’abbracciarsi per l’appunto, che si oppone alla freddezza e alla sterilità della distanza. Filiberto, uno dei protagonisti principali, e il figlio Enea, se pure “inventato” figlio di fumo, ma in uno scioglimento di tenerezza, «sono avvolti in un abbraccio».
Il narratore Pasqui srotola il racconto su due piani (di qui il valore ch’egli dà all’affermazione che «tutto era diventato bidimensionale»?) quello della vicenda vera e propria che fa da sfondo, pur consegnandosi in buona parte al fantastico, e quello della malattia, che certo risente delle cronache quotidianamente annunciate dai cosiddetti mezzi d’informazione. Quel che pare certo egli, partendo dal particolare d’un paesetto con il brusio della sua quotidianità, sale all’universale d’una epidemia vagante che tale piccolo mondo, ora minoritario, scombina riducendone il tempo a un incalzante «periodo attutito».
E della malattia «In quel carnevale senza maschere ma con le mascherine, in quella quaresima di deserto vero, (…)» Pasqui coglie appieno il dolore d’un tempo che ne è sovraccarico e non si sa perché sia cominciato né quando finirà, come se egli facesse il verso allo scrittore piemontese natio di Pola, Giovanni Arpino, secondo cui la vita, mancandovi il desiderio, l’affrancamento dalla solitudine, la liberazione dal reale, altro non è che «un cimitero travestito da carnevale».
Il Bambino rosso, che subito, non so perché, mi fa pensare al Rosso Malpelo di verghiana memoria, come quello (di pelo e capelli, e dunque di carnagione, rosso) per certi aspetti insofferente e disadattato alla vita (non per colpa sua e pur mancante della crudeltà che quegli pone a propria difesa), tanto da non capire nemmeno se davvero sia vivo, così facendosi amico, se non fratello, di un altro sospetto ‘non vivente’, è il protagonista del racconto, ma anche l’elemento di rottura, poiché mette a soqquadro la tranquillità d’una vita paesana dapprima libera e non ancor poveretta e adesso asservita alle imposizioni di una malattia virale dilagante che già ha costretto gli altri due attori della vicenda, Filiberto e Raimondo (si noti la particolare scelta dei nomi, in parte distanti in parte consonanti), alla «distanza di un metro senza darsi la mano» dove «ogni parvenza umana era aggrapparsi alla speranza conficcando le unghie entro un abbraccio virtuale». O che non sia nella sua incolpevolezza, nella certo non volontaria venuta su questa terra e pur nella voglia “d’esistere al mondo” il tratto che lo somiglia, in una virale immedesimazione, al germe che impazza o proprio lo identifica con quello, così obbligandolo in ultimo a sparire lasciando che tutti gli altri si salvino?
Si consideri che lo stesso uomo di nome Filiberto, quello che tra i due attori appare il più introverso e problematico, egli stesso ha costruito il bambino chiamato Elia (e rosso perché, se anche si contrapponga all’azzurro del suo fratellino, o suo sdoppiamento, Enea - più grandicello, con un «principio di baffetti che […] puntellavano la carne sotto il naso», secondo una colorita espressione - a significare il pericolo? Forse a intonarsi con la Morte rossa, con tanto di maschera, d’un Edgar Allan Poe?
O per converso a dar segno d’una passione, d’un floreale trionfo, quale per esempio è dato dai rossi papaveri, a rinascere la vita?), destinato a sperimentare già subito «quel deserto chiamato solitudine», dove la sua infanzia, di cui nulla sappiamo, va a frangersi. Certo è che l’affinità con la favola di Pinocchio del buon Collodi è più che palese, ma, nel caso anche che il nostro autore Pasqui vi avesse pensato, se ne scosta di non poco, se non altro per il fatto che il piccolo che nasce, ora ricavato da un pezzo di lamiera laddove l’altro veniva dal legno, fin dal principio è un bambino (in carne e ossa verrebbe a dire, anche se lo svolgersi del racconto, diciamo il suo filo conduttore, contrasta un poco con siffatta definizione) già mai un burattino, e dunque non è sottoposto a una prova di identità al cospetto degli altri bimbi suoi coetanei, e naturalmente che questo equivalga a una maggior presa sulla realtà, a un allontanamento dalla favola allo stato puro per avvicinarsi al simbolo, alla metafora, di un tempo che di favolistico conserva ben poco, è cosa tutta da discutere. Rimane il fatto che il possibile riferimento è a una favola immortale, di cui nell’oscurità del presente c’è un gran bisogno. Ma non si posson sapere più che intuirle le intenzioni dell’autore.
Sia come sia una presenza è costante lungo tutto il racconto ed è quella degli animali, che sono per buona parte, cominciando dagli insetti, quelli in cui si trasforma La signora Eurosia (quando non fosse «nella sua propria fattezza umana»), che fa intendere d’essere una donna per bene, diremmo sentimentale, disposta ad aiutare i compaesani (e qui Pasqui, da navigato narratore e da esploratore delle risorse dell’animo umano qual è, non è caduto nel tranello di rendere la suddetta ‘invisibile’ dandole lo stigma della banalità).
Un naso «a becco» ha l’Eurosia, così come «un naso simile a quello d’un cane » possiede il signor Perfetto, uno stralunato personaggio, dagli occhi scurissimi facenti «contrasto con un incarnato chiaro, quasi trasparente», vicino di casa della signora Gigliola. Un tratto di originalità, come sovente ottiene lo scrittore Pasqui, fors’anche in virtù del costante confronto con l’istituzione scolastica, da cui germina fresco giovanile rinnovo di pensieri, è dato dai due «signori di mezza età» che sono Gino e Giacoma, con l’uguale sillaba iniziale, e una sorta di inversione semantica, stante la rarità del secondo dei nomi qui volto al femminile (dove ci s’attenderebbe più logicamente un Giacomo e Gina).
E in che modo poi Pasqui, ancora una volta, abbia scovato quell’altro nome “Bastanti del Cedro” (dove non è chiaro, pensando al riferimento botanico, che s’arricchisce anche del «gigaro», ben strano e velenoso ’caldo’ vegetale, se si tratti del cedro agrume o del cedro conifera) a indicare signorotti locali e la loro villa (dove pure ha la sua abitazione la simil maga Eurosia) rimane difficile dedurre, ma all’autore, scimmiottando tal nome, nemmeno questo evidentemente può bastare, giacché egli si lancia, per tutto il racconto, in altre invenzioni. Una per tutte quella dell’«uovo incavolato» che non è quel che si crederebbe l’oggetto d’una arrabbiatura ma un prodotto di cucina, uovo e cavolo insieme, forse preparatorio alle feste pasquali.
Già all’inizio del secondo capitolo l’autore sembra invece farsi descrittivo e soltanto il proseguimento della lettura ne dà una chiave di interpretazione. Di fatto subito par strano questo suo soffermarsi, dicendo del paese in cui si svolge la vicenda, su descrizioni geometriche, persino numerarie: le tante case,
per ogni strada le vie che s’intersecano ciascuna con il nome d’un giorno della settimana e in ogni via i negozi e i negozietti vari, la chiesa, la banca, la farmacia, la macelleria, il sale e tabacchi l’area mercato, il piccolo parco, secondo un ritmo che sembra perfino farsi pedissequo e sovrabbondante, e come lo scrittore non si guardasse dal pericolo della noia, ma esso reca in realtà, come si suol dire leggendo tra le righe, un intento di contrapposizione, cioè di marcare il divario fra la quieta, diciamo pure consolidata vita paesana, forte delle sue tradizioni e regolata sui ritmi di sempre, e l’avvenimento ch’è fuori della sua portata ma anche da ogni umana comprensione e che tutto scompiglia e tutto rovescia a cominciare dalle certezze di sempre, ora che s’è chiuso, come in una asocialità, il libero contatto fra uomini e donne, insomma fra gli esseri umani, lasciandone una volta tanto le bestie incolumi, come queste mirassero da una privilegiata posizione l’umanità alla deriva.
E pur tuttavia in questo micromondo e nelle alterne vicende facendo egli circolare, Pasqui, almeno il «vento pronubo di primavera» col duplice suo significato di paraninfo soffiante e d’animale veicolante il polline fecondatore.
E come se i vari personaggi li cogliesse lo sguardo compassionevole dell’autore, e il ritorno alla normalità fosse dietro l’angolo, non vi è nella trama violenza alcuna, non il maleficio, nessun spargimento di sangue, anche i fatti che parrebbero paurosi infine non nocciono ad alcuno e si risolvono in una pace, in una linearità consolatoria che è quella del semplice andar dei giorni e delle consuetudini, che è il contrario, che è l’opposto di quel che volle, e ha ottenuto, la malattia.