Umberto
Pasqui ci ha abituati alle escursioni nei luoghi della fantasia, e
talora della favola, ma questa volta, nell’ultimo suo lavoro che ho
qui sottomano, un lungo racconto, dovendo rimanere confinato, egli
come tutti, alle quattro mura di casa, questa sua dimensione, oltre
che rendersi utile ai lettori che debbono rimanersene anch’essi
reclusi, e han dunque come ottima scelta di dedicarsi per l’appunto
alla lettura, ha potuto dilatarsi a considerazioni all’apparenza
estranee alle cose letterarie, che toccano qui le mediche questioni,
nelle quali peraltro egli mostra di cavarsela bene (attribuendo ai
fatti una concretezza e una veridicità scientifica laddove la
Malattia «rubava il gusto delle cose, il sapore, l’olfatto») ma
che pure non rinunciano al gran servizio reso alla letteratura. Una
volta naturalmente che si sappia che l’autore, di professione
insegnante, studi di Giurisprudenza alle spalle, esperto di cose
varie (e per chi non lo sapesse seguitante una tutta familiare
tradizione birraria), non è certamente nuovo al racconto, così come
al romanzo, così come al saggio e alla poesia, e anzi mi scuso d’una
‘presentazione’ di cui i tanti che lo conoscono, già dalle sue
molteplici prove sull’Osservatorio letterario, oltre che dalle sue
singole pubblicazioni poetiche e in prosa, potevano non aver bisogno,
essi sapendo, me compreso da tempo suo estimatore, quanto sia fra le
sue varie attività quella votata alle belle lettere la più
dipendente dal demone della scrittura, dal quale egli mostra
indubbiamente d’essere soggiogato, specie nei momenti che gli
lascian liberi gli impegni di lavoro.
Così
considerato, lo scritto di cui parlavo poc’anzi, testé uscito e
intitolato Il bambino rosso, a mio parere non è da vedersi
come uno dei tanti prodotti ottenuti per mano dei vari esponenti
della nostra intellettualità e che ci tempestano d’un infinito
materiale il quotidiano andare, quantunque vada accolto con ogni
benevolenza, giacché di ogni accadimento, e questo nel caso attuale
è d’alta complessità e coinvolgente un intero popolo, è un gran
bene che si dica, si parli e soprattutto si scriva, anche per un
domani in cui gli scritti rimarranno, ma, tornando a Pasqui, come un
qualcosa di più che viene sprigionato dalla penna arguta d’uno
scrittore che coglie il parallelismo fra le necessità d’una
condotta tutta pragmatica, vincolata al contenimento d’una malattia
e dunque a regolamenti e a imposizioni, e il bisogno di chi deve
attenervisi di fuggire o come di estraniarsi, di riprendere una
normalità del vivere.
La
quale non di sola scienza (di cui posso far valere il mio titolo e le
mie vedute essendo io medico e avendone esercitato il mestiere) è
fatta ma anche del desiderio di tornare sui propri passi e di
mantenere attorno a sé i giusti spazi dell’immaginazione e del
sogno, oltre che l’altrui vicinanza, senza i quali la vita è una
ben trista cosa, credendo in tanta affermazione che ne concordino i
proponimenti dell’autore ma anche i suoi stessi princìpi; che
per esempio esprime una delle sue recenti poesie che è
Impalcature:«Come rendere i sassi di un muro/ più saldi, più
forti?/Abbracciandoli./Come rendere un’anima e un corpo/ più
saldi, più forti:come?/Abbracciandoli.» (in L’incantamento-Poesie,
edizione O.L.F.A. 2017) ora
abbandonato il tono più realistico e crudo (se non crudele, se non
horror, pur nella romantica vitalità) che è in uno dei suoi
“vecchi” racconti intitolato La statua del sommo anatomico
(in Trenta racconti brevi, O.L.F.A., 2010) nel quale un
vecchio medico, già ridotto in statua di pietra, deve fare i conti
con le spoglie di se stesso.
Ma
lungo l’intero testo del Bambino rosso la parola abbraccio,
come fosse soprattutto di questo che la malattia che spazza le
strade ha privato l’umanità, torna più volte, quasi che esca
dalla penna dell’autore senza che egli stesso se ne avveda come
glielo dettasse la personale aspirazione al ritorno a una condizione
del bene, grazie quel gesto, l’abbracciarsi per l’appunto, che si
oppone alla freddezza e alla sterilità della distanza. Filiberto,
uno dei protagonisti principali, e il figlio Enea, se pure
“inventato” figlio di fumo, ma in uno scioglimento di tenerezza,
«sono avvolti in un abbraccio».
Il
narratore Pasqui srotola il racconto su due piani (di qui il valore
ch’egli dà all’affermazione che «tutto era diventato
bidimensionale»?) quello della vicenda vera e propria che fa da
sfondo, pur consegnandosi in buona parte al fantastico, e quello
della malattia, che certo risente delle cronache quotidianamente
annunciate dai cosiddetti mezzi d’informazione. Quel che pare certo
egli, partendo dal particolare d’un paesetto con il brusio della
sua quotidianità, sale all’universale d’una epidemia vagante che
tale piccolo mondo, ora minoritario, scombina riducendone il tempo a
un incalzante «periodo attutito».
E
della malattia «In quel carnevale senza maschere ma con le
mascherine, in quella quaresima di deserto vero, (…)» Pasqui
coglie appieno il dolore d’un tempo che ne è sovraccarico e non si
sa perché sia cominciato né quando finirà, come se egli facesse il
verso allo scrittore piemontese natio di Pola, Giovanni Arpino,
secondo cui la vita, mancandovi il desiderio, l’affrancamento dalla
solitudine, la liberazione dal reale, altro non è che «un cimitero
travestito da carnevale».
Il
Bambino rosso, che subito, non so perché, mi fa pensare al
Rosso Malpelo di verghiana memoria, come quello (di pelo e
capelli, e dunque di carnagione, rosso) per certi aspetti
insofferente e disadattato alla vita (non per colpa sua e pur
mancante della crudeltà che quegli pone a propria difesa), tanto da
non capire nemmeno se davvero sia vivo, così facendosi amico, se non
fratello, di un altro sospetto ‘non vivente’, è il protagonista
del racconto, ma anche l’elemento di rottura, poiché mette a
soqquadro la tranquillità d’una vita paesana dapprima libera e non
ancor poveretta e adesso asservita alle imposizioni di una malattia
virale dilagante che già ha costretto gli altri due attori della
vicenda, Filiberto e Raimondo (si noti la particolare scelta dei
nomi, in parte distanti in parte consonanti), alla «distanza di un
metro senza darsi la mano» dove «ogni parvenza umana era
aggrapparsi alla speranza conficcando le unghie entro un abbraccio
virtuale». O che non sia nella sua incolpevolezza, nella certo non
volontaria venuta su questa terra e pur nella voglia “d’esistere
al mondo” il tratto che lo somiglia, in una virale immedesimazione,
al germe che impazza o proprio lo identifica con quello, così
obbligandolo in ultimo a sparire lasciando che tutti gli altri si
salvino?
Si
consideri che lo stesso uomo di nome Filiberto, quello che tra i due
attori appare il più introverso e problematico, egli stesso ha
costruito il bambino chiamato Elia (e rosso perché, se anche si
contrapponga all’azzurro del suo fratellino, o suo sdoppiamento,
Enea - più grandicello, con un «principio di baffetti che […]
puntellavano la carne sotto il naso», secondo una colorita
espressione - a significare il pericolo? Forse a intonarsi con la
Morte rossa, con tanto di maschera, d’un Edgar Allan
Poe?
O
per converso a dar segno d’una passione, d’un floreale trionfo,
quale per esempio è dato dai rossi papaveri, a rinascere la vita?),
destinato a sperimentare già subito «quel deserto chiamato
solitudine», dove la sua infanzia, di cui nulla sappiamo, va a
frangersi. Certo è che l’affinità con la favola di Pinocchio del
buon Collodi è più che palese, ma, nel caso anche che il nostro
autore Pasqui vi avesse pensato, se ne scosta di non poco, se non
altro per il fatto che il piccolo che nasce, ora ricavato da un pezzo
di lamiera laddove l’altro veniva dal legno, fin dal principio è
un bambino (in carne e ossa verrebbe a dire, anche se lo
svolgersi del racconto, diciamo il suo filo conduttore, contrasta un
poco con siffatta definizione) già mai un burattino, e dunque non è
sottoposto a una prova di identità al cospetto degli altri bimbi
suoi coetanei, e naturalmente che questo equivalga a una maggior
presa sulla realtà, a un allontanamento dalla favola allo stato puro
per avvicinarsi al simbolo, alla metafora, di un tempo che di
favolistico conserva ben poco, è cosa tutta da discutere. Rimane il
fatto che il possibile riferimento è a una favola immortale, di cui
nell’oscurità del presente c’è un gran bisogno. Ma non si
posson sapere più che intuirle le intenzioni dell’autore.
Sia
come sia una presenza è costante lungo tutto il racconto ed è
quella degli animali, che sono per buona parte, cominciando dagli
insetti, quelli in cui si trasforma La
signora Eurosia (quando non
fosse «nella sua propria fattezza umana»), che fa intendere
d’essere una donna per bene, diremmo sentimentale, disposta ad
aiutare i compaesani (e qui Pasqui, da navigato narratore e da
esploratore delle risorse dell’animo umano qual è, non è caduto
nel tranello di rendere la suddetta ‘invisibile’ dandole lo
stigma della banalità).
Un
naso «a becco» ha l’Eurosia, così come «un naso simile a quello
d’un cane » possiede il signor Perfetto, uno stralunato
personaggio, dagli occhi scurissimi facenti «contrasto con un
incarnato chiaro, quasi trasparente», vicino di casa della signora
Gigliola. Un tratto di originalità, come sovente ottiene lo
scrittore Pasqui, fors’anche in virtù del costante confronto con
l’istituzione scolastica, da cui germina fresco giovanile rinnovo
di pensieri, è dato dai due «signori di mezza età» che sono Gino
e Giacoma, con l’uguale sillaba iniziale, e una sorta di inversione
semantica, stante la rarità del secondo dei nomi qui volto al
femminile (dove ci s’attenderebbe più logicamente un Giacomo e
Gina).
E in che modo poi Pasqui, ancora una volta, abbia scovato quell’altro
nome “Bastanti del Cedro” (dove
non è chiaro, pensando al riferimento botanico, che s’arricchisce
anche del «gigaro», ben strano e velenoso ’caldo’ vegetale, se
si tratti del cedro
agrume o del cedro conifera) a
indicare signorotti locali e la loro villa (dove pure ha la sua
abitazione la simil maga Eurosia) rimane difficile dedurre, ma
all’autore, scimmiottando tal nome, nemmeno questo evidentemente
può bastare,
giacché egli
si lancia, per tutto il racconto, in altre invenzioni. Una per tutte
quella dell’«uovo
incavolato»
che non è quel che si crederebbe l’oggetto d’una arrabbiatura ma
un prodotto di cucina, uovo e cavolo insieme, forse preparatorio alle
feste pasquali.
Già
all’inizio del secondo capitolo l’autore sembra invece farsi
descrittivo e soltanto il proseguimento della lettura ne dà una
chiave di interpretazione. Di fatto subito par strano questo suo
soffermarsi, dicendo del paese in cui si svolge la vicenda, su
descrizioni geometriche, persino numerarie: le
tante case,
per
ogni strada le vie che s’intersecano ciascuna con il nome d’un
giorno della settimana e in ogni via i negozi e i negozietti vari, la
chiesa, la banca, la farmacia, la macelleria, il sale e tabacchi
l’area mercato, il piccolo parco, secondo un ritmo che sembra
perfino farsi pedissequo e sovrabbondante, e come lo scrittore non si
guardasse dal pericolo della noia, ma esso reca in realtà, come si
suol dire leggendo tra le righe, un intento di contrapposizione, cioè
di marcare il divario fra la quieta, diciamo pure consolidata vita
paesana, forte delle sue tradizioni e regolata sui ritmi di sempre, e
l’avvenimento ch’è fuori della sua portata ma anche da ogni
umana comprensione e che tutto scompiglia e tutto rovescia a
cominciare dalle certezze di sempre, ora che s’è chiuso, come in
una asocialità, il libero contatto fra uomini e donne, insomma fra
gli esseri umani, lasciandone una volta tanto le bestie incolumi,
come queste mirassero da una privilegiata posizione l’umanità alla
deriva.
E
pur tuttavia in questo micromondo e nelle alterne vicende facendo
egli circolare, Pasqui, almeno il «vento pronubo di primavera» col
duplice suo significato di paraninfo soffiante e d’animale
veicolante il polline fecondatore.
E
come se i vari personaggi li cogliesse lo sguardo compassionevole
dell’autore, e il ritorno alla normalità fosse dietro l’angolo,
non vi è nella trama violenza alcuna, non il maleficio, nessun
spargimento di sangue, anche i fatti che parrebbero paurosi infine
non nocciono ad alcuno e si risolvono in una pace, in una linearità
consolatoria che è quella del semplice andar dei giorni e delle
consuetudini, che è il contrario, che è l’opposto di quel che
volle, e ha ottenuto, la malattia.