Su il Momento del 28 agosto 2014, una recensione di Dritto al Cuore e una citazione del sottoscritto.
domenica 31 agosto 2014
venerdì 29 agosto 2014
Racconti in ordine alfabetico
E' di recente pubblicazione un volume con una selezione di oltre cento miei racconti pubblicati su riviste o antologie.
L'immagine di copertina è di Giorgio Pondi.
L'immagine di copertina è di Giorgio Pondi.
I titoli dei racconti compresi nella raccolta:
- A fine mese
- A mezza voce
- Abbagli
- Adagio
- Adelaide controvento
- Arianna nella grotta dei pensieri
- Aritmetica narrativa
- Bella, l'ombra
- Birranalisi
- Brodo d'estate
- Campostrino
- Candele alla citronella (Fu tutto bianco)
- Ci siamo guardati solo un attimo
- Ciclomachia
- Cinque ottobre
- Colonne in cammino
- Corpo di mille balene
- Così mi vedete
- Cuordarancio e le onde scomparse
- Cuordarancio e il topogatto misterioso
- Dell’identità perduta
- Dialogo improbabile
- Dulcia linquimus arva
- Elettra e il lavandino parlante
- Fara del ferro
- Geometrie di Wolfhagen
- Giallo senza soluzione esplicita numero 1
- Giallo senza soluzione esplicita numero 2
- Giallo senza soluzione esplicita numero 3
- Giallo senza soluzione esplicita numero 4
- Gli alberi di città
- Ho caldo
- I due baroni sulla verdura
- Il cactus generoso
- Il canto di mezzanotte
- Il collezionista di grucce
- Il commissario sferico
- Il cortile dei sogni svaniti
- Il fiume scomparso
- Il naso della regina
- Il negozio di bugie
- Il paguro poeta
- Il principe degli asteroidi
- Il quaderno di Telemaco
- Il ritorno
- Incastri
- Ironia del cardellino
- L'aveva già vista
- L’oggetto incomprensibile
- L'ultima cosa che arriva
- L’uomo di ricambio
- La birra che sa di pesce
- La casa delle voci
- La corsa dei faggi
- La cravatta
- La dolce evasione
- La fanciulla dai denti a sciabola
- La primavera in casa
- La nevicata del dodici
- La ninfa di ghiaccio
- La quaglia incantatrice
- La radice di alloro
- La sfera d'argento
- La statua del sommo anatomico
- Le due sorelle
- Le lettere azzurre del belga
- Lento ma costante
- Lo scudo nel cielo
- Lo specchio pensieroso
- Mal comune mezzo gaudio
- Malinconia urbana
- Mi chiederai perché
- Mondo d’avorio
- Nel giardino degli iperborei
- Non era un mondo buono
- Notte
- Notte in laboratorio
- O fortuna
- Per una pioggia di briciole
- Possibile?
- Prendeva nota di tutto
- Profumo
- Quattro viole
- Quelli dei Fondi antichi
- Resinosa
- Rigore netto
- Rimani qui
- Senza senso
- Senza titolo
- Si dice
- Simpatia senza rucola
- Sineddoche inaudita
- Sugolò che aveva un braccio
- Trecentosessantotto
- Ultimo giorno
- Un pianeta in festa
- Uno, uno, uno
- Uscita d’insicurezza
- Venticinque marzo
- Zeno Zero
- Zuriva
lunedì 25 agosto 2014
Insalata di vento
Il
racconto Insalata di Vento è già stato pubblicato dalla casa
editrice Kimerik nel 2005. In questa veste il testo viene riproposto
dopo l’uscita dal catalogo.
Ecco
l'ultima versione (2013/14): l'immagine di copertina è di Giorgio
Pondi.
Dove trovarlo?
Ripubblicare
un’opera letteraria, specialmente un romanzo o un racconto, com’è
per quest’opera di Umberto Pasqui, significa che l’autore deve
avere una grande fiducia su ciò che aveva in precedenza pubblicato.
Nella fattispecie, circa Insalata
di vento,
il motivo della fiducia credo sia talmente palese che, per averne
riscontro, basti leggere il racconto anche di malavoglia, con molta
superficialità. Quantunque, conoscendo quest’autore, venga più
opportunamente da osservare che chissà quanti altri lavori egli
potrebbe pubblicare ex novo per argomento e trama. Ma, si sa, le cose
riviste ed aggiornate, proprio per una logica di work
in
progress,
esprimono il massimo sotto l’ottica d’una individuale
perfettibilità. E siccome, lo s’evince dal suo peculiare modello
di scrittura che ne certifica un linguaggio seriamente impegnato,
colto, pulito, colorato, icastico, soprattutto chiaro ed efficace,
Umberto Pasqui ama parecchio la ricerca d’una sua perfezione
narrativa, e non stupisce affatto che voglia riproporre pubblicazioni
già notevolmente valide alla loro primissima uscita.
Ma
che dire, nello specifico, circa questo racconto?
Ebbene, intanto è
opportuno prendere atto che incanalare nella categoria “racconto”
le produzioni narrative di U. Pasqui sia alquanto azzardato. È, la
sua, una tipologia molto sui
generis.
Per prima considerazione ci si deve mettere in sintonia con la
constatazione che la realtà letteraria che le righe traspirano è
improntata alla trasgressione. Non è uno spingersi al di là di
regole codificate da leggi istituzionali, sociali; ma è un andare
oltre le regole d’una quotidiana ordinarietà scritturale, questo
sì. Espediente evidente a riguardo sia del fattore naturalistico
quanto di quello idealistico: alterazione degli elementi della natura
e diversificazione d’un medio modus
operandi,
caratteristica dell’umano, usuale rapportarsi all’effettività.
Il
titolo di per sé è già in grado d’esprimere tale ricerca, un
percorso anelante ad una diversità che non è di tutte le menti.
Poi, abbracciando
l’incipit e finendo di leggerne solo poche righe, a ridosso del
termine della prima delle settantatré scansioni, si legge che il
giovane protagonista, Dante, si prefigge di festeggiare il nuovo anno
in una maniera del tutto inusuale. È un capodanno palindromo d’un
non specificato anno ma molto verosimile 2002, e perciò un capodanno
originale già nei suoi prodromi. Capodanno diversamente programmato
rispetto a quelli passati nell’arco temporale dei ventuno anni del
protagonista, «stanco della sua normale normalità». Per cui si
propone in
primis di
sfidare la superstizione, invitando per i festeggiamenti, a casa sua,
tredici amici: si badi a quel numero tredici. Quindi, tra le sue
altre idee di cambiamento, decide di «non
indossare nulla di rosso»,
contravvenendo ad una consuetudine tra le più diffuse. Dopo di che
ed immediatamente la narrazione penetra nella rincorsa ad una
diversità a trecentosessanta gradi, che assume ruolo tematico
imprescindibile nell’economia del narrato.
La
negazione del colore rosso, oltre il breve passo che darebbe
tradizionale colorazione alla cronaca del capodanno, terrà ancora
banco, d’ora in poi però riconquistando un suo positivo
significato, appartenendo alla caratteristica cromatica dei capelli
d’una giovane ragazza («fulvicrinita») che, nel giro di poche
ore, perseguiterà in maniera ossessiva l’orbita visiva di Dante. È
Clotilde quella ragazza. Sorta di fattucchiera suo malgrado, che
dagli occhi, per chi abbia la fatale fortuna-sfortuna di
penetrarglieli, emana il mistero d’una sottostante vita.
Realtà-irrealtà che s’espande nell’estenuante sogno d’un
ugualmente lungo sonno nel quale può risolversi, dissolvendosi
oppure perfezionandosi, quell’effettiva esistenza di chi ne sia
inconsapevolmente partecipe.
Ed
altrettanto velocemente, incanalando la storia che accomuna Dante e
Clotilde nella godibile quanto straordinariamente artificiosa scia
del sogno, che inverte o comunque scombussola i parametri della vita
quotidiana, la trasgressione del comportamento diviene trasgressione
della stessa realtà. Si penserebbe d’acchito ad una mera
distorsione che la proiezione onirica è generalmente capace
d’apportare rispetto alle concrete motivazioni ed emozioni del
reale. A quella destrutturazione molto prossima al vissuto, sia
passato che futuro, che normalmente ogni dormiente sogna, uomo o
donna, adulto o bambino che siano. Invece non è del tutto così. La
fase onirica che Pasqui descrive s’insinua nelle stupefacenti
barriere che racchiudono fiaba e mito, catapultando il lettore nel
paradossale «silenzio assordante» d’una Città Silente in cui la
ninfa Eco ed il ciclope Bronte si confondono con una miriade di
personaggi fiabeschi, irreali proiezioni, meno che origami, anche
quando nell’illustrazione corrispondano a potenziali figure d’un
verosimile quotidiano. Ingombranti mostri, titanica realizzazione più
di flora che di fauna. E, in parallelo, simil-esseri umani che,
ognuno per una sua fisica, ben palese peculiarità corporea, icastico
indice somatico e caratteriale, assurgono a monarchi o, viceversa, a
sottomessi servitori. O, ancora, alati esserini che possono risultare
catalitici, enzimatici fattori d’amore o all’opposto d’odio e,
di conseguenza, di finale vittoria o di parziale sconfitta. Perché,
alla fine, lo si sa, in ogni edificante favola trionfa sempre
l’amore, inteso come giustizia o catarsi.
Come in altre occasioni
ho rilevato in U. Pasqui affinità con la letteratura di Italo
Calvino e di Carlo Cassola, qui addirittura, pur confermando tale
emulazione scrittoria, andrei oltre, richiamando, a suffragio
dell’evidentissima originalità del nostro autore, altresì
l’ingegnosa, avventurosa letteratura di Giulio Verne. Di fatto
emerge, limpida e favolosa, una capacità geo-architettonica, con la
quale egli abbozza territori, talora sotterranei, e relative
costruzioni, edifici e marchingegni talmente sorprendenti per
fantasia e verosimiglianza tali da far rimanere a bocca aperta
qualsiasi lettore, meravigliato dall’ingegno, folgorato dalla
fantasia.
A
proposito del Lettore, questa scrittura è capace di coinvolgere sia
gli adulti sia i piccoli, come pochi scrittori sanno ed hanno saputo
fare, prostrandosi ad una capienza davvero onnicomprensiva
dell’interesse e della conoscenza semantica. Se qualche parola
possa non essere compresa appieno dai più piccoli fruitori, questi
ultimi possono essere soccorsi pacificamente dalla linearità
dell’esecuzione della trama, chiara, cristallina, consequenziale,
appassionata, puntualmente coerente.
Magari il lettore adulto,
erigendosi nella sua maggiore padronanza culturale, saprà cogliere
il parallelismo di questo Dante del Duemila con quello trecentesco
dell’Alighieri, che, grazie all’arcinota sua Divina
Commedia,
si spinge, piuttosto che alla ricerca d’una sua Clotilde a quella
di Beatrice, in un immaginario oltremondo,
transitando dall’Inferno
al Paradiso,
per una sequela di complicati gironi e di decantati geomorfologici
percorsi, anziché trovarsi nell’oltremondo
di questo Umberto Pasqui più incline alla favola che alla teologia,
pur facendo emergere di quest’ultima note non indifferenti.
Il
suo entusiastico sogno che, concentrato in una dormita, racconta
«l’avventura di una notte che vale una vita», incapsulato com’è
nella teorica spora d’un eterno presente che, primaria essenza
della fiaba, incorpora i significati d’ogni ossimoro
dell’esistenza, s’erge comunque oltre la ricetta d’un’insalata
di vento
che racchiude gli essenziali semi del bene e del male e soprattutto
dell’amletico dilemma dell’essere e del non-essere, facendone una
determinante miscela di vittoria etica e sociale, e ancora una volta
realizza una benvenuta morale della favola, che, a ben pensarci,
corrisponde ad una sopraelevata, benvenuta filosofia di vita. Alla
fin fine, anche se non esprime la sublime teologia dantesca, questa
piacevole narrativa di Umberto Pasqui ha in ogni caso il gusto d’un
utile insegnamento di vita.
Emilio Diedo
(Prefazione di "Insalata di vento")
domenica 24 agosto 2014
Odoacre sconosciuto
Il
racconto Odoacre
sconosciuto
è già stato pubblicato dalla casa editrice Prospettiva nel 2002. In
questa veste il testo viene riproposto dopo l'uscita dal catalogo.
Ecco
l'ultima versione (2014): l'immagine di copertina è di
Giorgio Pondi.
Ecco dove trovarlo:
Intraprendere una lettura quando si sa che a scrivere è Umberto Pasqui lo si fa ben volentieri. Prima ancora d’entrare nel vivo della trama ci si predispone ad un prioritario entusiasmo che anticipa la certezza di poter essere attivamente-passivamente (pur volendolo a priori ci s’incaglia nella piacevolissima tirannia d’un assuefacente coinvolgimento) assorbiti dal piacere d’un linguaggio da decifrare attentamente.
Anzitutto
non si può mai sapere dove voglia andare a parare la fantasia di
quest’originale, avvolgente autore. Anche qualora sembri esordire
nella mera puerizia propinante la mediocre narrazione d’un trito o
quanto meno poco diversivo quotidiano, che si potrebbe prestare ad
una proiezione d’idea alquanto limitativa, irrilevante dal punto di
vista letterario, non passa il tempo di leggere la primissima pagina
che, ribadendo le sue doti letterarie e, di conseguenza, smentendo lo
scialbo inizio, ci si accorge già degli eccitanti, invitanti
prodromi che ne seguiranno. Effetto che potrebbe apparire nello
specifico di questo revisionato racconto se non si facesse dovuta
mente locale al titolo. Titolo, questo, ambiguo nel cogliere
indicazioni che rivelino un concreto anticipo del narrato. Ambiguo e
purtuttavia emblematico. Non solo per quello sconosciuto,
attributo che
ne allarga la prospettiva, inducendo di per sé a riflettere. Ma
soprattutto perché, proprio in forza di tale sua conclamata
anfibologia, si presta ad essere letto come titolo multimetaforico,
implicante un primario, ed appunto risolutivo, scervellamento che
porta, nella sua intuibile scomposizione, ad una trivalente
indicazione. Ossia: Odoacre
pensabile come Odo
(prima persona presente del
verbo sentire) + acre
(aggettivo funzionale ad un
addirittura triplo approccio dei sensi, concernente il gusto o
sapore, l’odore nonché l’aspetto caratteriale d’una persona).
Laddove riterrei che la vera,
larga idea stia nell’amplificazione del senso dell’olfatto, che
forse, sul piano intuitivo, è la meno scontata.
Probabilmente,
se non fosse sembrato troppo artefatto, Pasqui avrebbe potuto
inserire un inizio titolo del genere: Odo(re)acre,
quale univoca metafora, blandamente sinestesia, rappresentativa dei
lutti dei tanti fratelli (ben undici) subiti dal protagonista, in
aggiunta ad un’esistenza grama patita sotto la dittatura delle due
ulteriori sorelle maggiori, gli unici consanguinei legami ancora a
lui coesistenti.
Già
questo prioritario suggerimento, promanante dal titolo, mette, a
scanso d’equivoci, il diligente lettore nell’ottimale stato
d’animo che avvalla la lettura del libro. In quanto, conoscendo
anche la tipologia narrativa del nostro scrittore, s’intuisce che
al di là d’un’eventuale apparente incipit poco incisivo, da
ritenersi volutamente tale, il titolo preannuncia un improvviso,
perentorio e sostanziale, cambio di registro scenico.
E,
proprio così, nel metodico proseguire del racconto emerge presto un
altro fattore di stimolo alla lettura: l’ignoranza (ridondante
timbro col quale Pasqui vuole sollecitare l’attenzione, perché, da
qui in poi, sarà fattore decisivo a marcare l’inattesa svolta
della trama) della ferrea essenza volonterosa di Odoacre, che
risalta, in forte controtendenza, nel disegno temperamentale del
personaggio. Da una parte senza spina dorsale e dall’altra assiduo
artefice dell’agire, nella parte più affabulante della storia. Un
eroe-manichino, o se vogliamo una sorta di cane fedele, un robot
tutto cuore e braccia, privo però d’una sua cerebrale autonomia,
capace solo d’obbedienza e sottomissione. Apparenza però che
scaturisce nell’iniziale presentazione del personaggio, che
comunque ne riguarda il primo squarcio di realtà, completamente
scevra d’ogni suo indipendente coinvolgimento. Odoacre e le sue due
sorelle schematizzano in maniera perfetta quel rapporto psicologico
in cui un individuo, perdente (ossia Odoacre) è succube, ed almeno
un altro individuo, vincente (le due sorelle) ne è incube.
È
perciò evidente come Pasqui avrebbe potuto ulteriormente riscrivere
il titolo: Odoa(la)cre
[leggasi più scorrevolmente:
odo-alacre] sconosciuto.
Dove l’attributo sconosciuto
calzerebbe a pennello. Tuttavia sta bene così! È altresì evidente
che non possano sprecarsi tante, troppe, osservazioni solo sul titolo
d’un racconto. Fatto sta che quest’ultima presunta
caratteristica, dell’alacrità, che mette in luce una certa
potenzialità del personaggio principale, entrando nel vivo
dell’intreccio, sarà determinante nel rivoluzionare la personalità
di Odoacre!
In
ogni caso, la seconda parte del titolo (sconosciuto)
potrà essere meglio riconsiderata nel momento in cui la cupidezza
delle possessive sorelle sarà scalzata dall’opposto libertario
sentimento d’amore che Livia gli tributerà. Guarda caso, proprio
in quel mentre, il nome Odoacre
diventa nel narrato, grazie a Livia, Dodè,
sul quale nome non sembra più possibile azzardare ipotesi. Nome
libero da qualsiasi interferenza, degno d’una pienezza tutta sua.
Sarà
quando l’originaria dimensione del narrato incomincerà a
stratificarsi, assumendo gli usuali (con riferimento al nostro
autore) risvolti onirici e nel contempo fabulatori, che finalmente
astrarranno dall’opaca realtà ed assurgeranno invece ad immaginosa
quanto distraente (significando ‘coinvolgente’) finzione.
La
metamorfosi di Odoacre avviene navigando, imbarcatosi sulla sua
piccola goletta (che nell’inventivo immaginario del protagonista è
uno “sciabecco”).
Imbarcazione
dal doppio autorevole nome di donna, che incarna la forza genetica
d’una nuova maternità: Teodolinda (nome impostole da un parente) e
Amalasunta (nome che Odoacre avrebbe preferito). Erano, queste, nella
storia del medioevo, due donne barbare, longobarda la prima,
ostrogota la seconda, le quali ebbero l’opportunità di governo
interinale nelle veci dei relativi sovrani. Chiaro simbolo d’un
grembo materno di rinascita.
Odoacre,
nel suo svagato navigare, si perde e s’inoltra nella transitoria
favola che gli cambierà la vita, intimamente.
Livia
lo segue per conto suo ed anche lei si perde in balia del mare.
Alla
fine saranno ritrovati insieme, issati a bordo dalla rete
d’un’imbarcazione di pescatori, sottratti ad un’alga che li
aveva fagocitati e che per sette
giorni li aveva
tenuti incapsulati nel suo involucro.
Sette
giorni, lo stesso periodo della divina creazione: proprio il settimo
giorno Dio si riposò. Ulteriore indice di catarsi. E si badi bene
che la parentesi in cui subentra la favola, o comunque l’immaginario,
è collocata in un limite di tempo ben più ampio. Un mondo il cui
anno solare è misurato da atipiche stagioni, assolutamente irrelate
e che costruiscono spazi temporali altrettanto fantasiosi. Non a caso
Pasqui suddivide il contesto del racconto in quadranti
piuttosto che in capitoli.
Di
conseguenza anche gli immaginari mondi, isole, loro fusioni,
montagne, promontori, insenature, che si srotolano nelle pagine di
questo fantastico libro è inutile anticiparlo quanto siano dissimili
dal mondo reale. Chi conosce Umberto Pasqui lo può agevolmente
immaginare; chi non lo conosce ancora lo legga e lo capirà. Idem per
i personaggi.
Lasciamo
perdere i luoghi ma non trascuriamo invece i personaggi.
Sia
gli uni che gli altri, come di consueto, nei nomi identificativi
assommano altrettante loro peculiarità, spesso contrapposte,
ossimori della realtà, e, specialmente le figure animate, chimere
dell’esistenza. A parte il realistico, necessario “entourage”
umano che fa da sponda ad Odoacre, praticamente Livia e le undici
ombre dei suoi defunti fratelli, che appaiono nel tragitto della sua
avventura odissea chiedendogli il favore d’aiutarle a superare il
limbo della terrena esistenza, le altre figure, quelle precisamente
deducibili dalle trame irreali, si possono definire, piuttosto che
personaggi, ‘creature’. E mentre le prime, figure di persone
realmente esistenti, in una divisione per classi di qualità o di
ruoli, ci pervengono tramite l’ottica distorsiva dell’alterato
ego di Odoacre, col quale ne avverte anche l’irrimediabile curiosa
sorte, tali da essere inquadrati in un vissuto omologo alla relativa
definizione (“contromadri”, “frettolenti”, “sivergogni”,
“giasentiti”, “ristorrendi”, “piangineve”, “telèbeti”,
“parlinvano”, “impegnanti”, “sparachiasso”,
“ubisproloqui”, “convadenti”, “precarelle”,
“esteridioti”), invece le seconde figure sono esseri impensabili
quanto ad una loro possibile effettività. Elenchiamone alcune:
“Gheppio Caracalla”; “Domitilla”, fanciulla che diventa
regina per aver individuato il perfetto centro acustico dell’Isola
delle due Campane;, “Vittoria Mareggiata”; il pesce-filosofo
“Nereo”; il trasformista “Martagone del Maggiociondolo”;
“Scorpione
Elefante”;
“Eliopanto”, maestro (pensate un po’) di “tuttologia
pressappochistica” che agli amici, invece di dare del tu, dà
dell’io (sì, avete capito bene!); il gigantesco, bellicoso
lombrico “Cercarogne del Colle Bagnato” e “Barsanofrio”, da
quest’ultimo di spada infilzato e tranciato in due, nonché suo
padre “Crisobulo”; la “libellula gigante”, quale mezzo
d’aerea locomozione; ed una serie di pesci elettrici, suddivisi in
22 specie, e
altre creature marine tra cui
“placide ascidie”, “minacciosi gigantostraci”, dalle chele
spaventose, ed i “narvali”, conduttori di “caporemi”, pirati
in senso buono (che fanno del bene anziché il contrario) delle Acque
di Ghiaccio, sorta di sirene nane…
Affondando l’analisi nei valori, nel
concludere, si può ancora asserire che con questo suo gioioso
racconto, in cui il concetto escatologico non assurge solo a limite
di paragone ma ne è l’essenza, Umberto Pasqui vuole affiancare ad
ogni essere umano, per la sua parte individuale negativa
dell’esistere, un barlume di speranza che, pur talora riducendosi
al miserrimo lumicino, è opportuno ed auspicabile che non si spenga
mai. L’ennesima lezione proveniente dal nostro autore, che, in
tutta umiltà, vuole suggellare in questo libro a dir poco
paradigmatico.
Emilio
Diedo
(Prefazione
di “Odoacre sconosciuto”)
sabato 23 agosto 2014
Saturno e l'Assoluto
Il
racconto Saturno e
l'Assoluto è già
stato pubblicato (seppur in forma diversa) nella raccolta di racconti
“Il Fiore delle idee” (Michele di Salvo Editore, 2000 e 2002).
Ecco l'ultima versione (2013-14): le immagini di copertina sono di
Giorgio Pondi.
Dove trovarlo?
http://www.lulu.com/it/it/shop/umberto-pasqui/saturno-e-lassoluto/paperback/product-21700917.html
Che
Umberto Pasqui sappia scrivere bene, soprattutto narrare favole
incorniciate tra la fantasia e la realtà (per quattro quinti
fantastico e solo per il rimanente quinto verosimile), talvolta
proiezione d’un onirismo assolutamente sui
generis, che, quanto ad
effetto, superano alla grande le favole di canonica fattura, è
nozione risaputa.
Narrativa aspecifica che lui,
umilmente e comunque incurante che questo suo narrare possa
annoverarsi in un’innovativa demarcazione letteraria, definisce,
nella singola particella d’unità, semplicisticamente ‘racconto’.
Il
fatto è che ogni volta si legga qualcosa di suo, non si è in grado
di poter fare una ragionevole previsione di dove possa andare a
sbattere le ali l’incipit di turno. Com’è vero che quest’altro,
riedito, ‘racconto’ è strutturato tra mitologia e, fate bene
attenzione, astronomia. Eccola la puntuale novità di quest’ultimo
(ma non ultimo) lavoro: la materia astronomica!
Accessione, questa dell’astronomia,
che potrebbe indurci, senza aver ancora letto almeno qualche pagina
del testo, in un pensiero immerso in quell’ordinaria fantascienza,
d’eccezionale interesse, sì, ma ben inquadrata in un’ottica in
cui lo stupore sia abbastanza prevedibile, in special modo elaborata
su astronavi, navicelle spaziali o altri mezzi aerei all’insegna
d’una scienza che comunque non sfugga, ormai (in forza d’una
molto ampia, se non trita letteratura), più di tanto alla portata
della mente del contemporaneo lettore, giovane o meno giovane che
sia. Laddove l’astronomia di cui s’avvale Pasqui è, qui, del
tutto insospettabile, essendo essa rappresentata, nella descrizione
che ci perviene, in un apparentemente normale labirinto
spaziotemporale, i cui mezzi di locomozione sono fantastici animali
alati, non, o non soltanto, mitologici grifoni, arpie… unicorni
bianchi, bensì originalissime
altre chimere, nel significato più largo e moderno che il termine
‘chimera’ possa evocare. Draghi
alati a parte, unico elemento
intrusivo ma giustificabile con l’esigenza di dare corpo ad una
forte metafora che incarni il male (essendo essi al servizio degli
Sberfi,
esseri che praticano una sorta di schiavismo senz’alcuna pretesa di
servitù da parte dei malcapitati), per il resto si tratta di
straordinarie figure di creature posticce e nel contempo belle,
piacevolissime. Senza troppi mostruosi, deformi animaleschi incroci
che incutano terrore, sgomento, inquietudine. Sono graziosi, ameni
adattamenti: volasini,
alicanguri.
Assemblaggi quasi invisibili.
Unica loro variante, l’aggiunta d’un paio d’ali. Anche i
camelopardi,
fra i quali Saetta,
esemplare preferito dal conte
Saturno, ambedue protagonisti
del presente ‘racconto-favola’, altro non sono che bellissime
giraffe dalla gigantesca, maestosa apertura alare. Creature che,
semmai, arricchiscono in bellezza la loro naturale anatomia.
Il
teatro della narrazione invece non esula troppo da un’impostazione
usualmente fantascientifica.
Purtuttavia
se ne concepisce una divertente, talvolta scompisciante impalcatura.
Dalla Terra, da dove parte la ricerca che esplica il profondo
significato teoretico, teologico nonché teleologico, e che imprime
la giusta morale (sofisticatamente filosofica) della favola,
consistente nella ricerca dell’Assoluto
(«Mi hanno detto che per
nascere sono uscito dalla pancia di mia madre, così ho iniziato a
conoscere il mondo. Ora, per conoscere l’oltre, devo uscire dal
mondo. Per poi rientrarci»,
così s’esprime la dialettica maschera del conte Saturno),
l’intreccio transita per l’orbita della Luna,
e per le altre orbite di pressoché tutta la nostra galassia, di
volta in volta incontrando vite alternative, talora non troppo, a
quella umana (vedansi i Mangiacuori,
i Cercamoglie)
e strutture le più assurde ma compatibili con le relative atmosfere
dei pianeti e dei satelliti di pertinenza. Viaggio che finisce col
raggiungere, tanto per fare un esempio, un’ultrafantastica Cometica
(«regione in cui nascono le comete, ricca di pietre ghiacciate
vaganti nello spazio»). È
così che questa particolarissima fattispecie di fiaba s’insinua
tra corpi astrali veri o inventati, sino ad afferrare finalmente
quell’idea d’Assoluto
che in sé si confonde tra vita e morte, essere e non-essere,
l’esistenza ed il nulla, espandendosi in un impenetrabile Oltre,
teoria e realtà, luogo e tempo, che per la scienza astronomica (per
certe nozioni ancora presunta ma ogni giorno sempre più vicina alla
realtà) dovrebbe all’incirca corrispondere ad ammassi stellari
consistenti in un affollamento di qualcosa come non meno di
centoventimiliardi di galassie, imbrigliate tra un’altissima
percentuale (stimata nella misura del 70%) di “energia-materia
oscura”. Naturalmente proprio qui termina la vittoriosa cavalcata
(incompiuta ma bastevole risposta per l’intelletto del protagonista
e del lettore) del conte
Saturno, figlio del conte
Urano, che, recuperando
l’esistenza del genitore (prima di lui partito nella medesima
ricerca e fino ad allora dato per disperso), recupera altresì la via
del ritorno sulla Terra.
Nei
due nobili eroi Urano
e Saturno,
nomi paralleli a quelli dei due omonimi corpi celesti, è palese la
metafora che indica come l’uomo sia presente, tanto quanto il
cosmo, e forse ancor di più, nell’esistenza e nel destino del
creato, incarnandone passato, presente e futuro. Perché, di fatto, è
l’uomo a scoprire la natura di quest’ultimo, la struttura e la
consistenza; non viceversa, assiomatica ipotesi. Nell’uomo è
implicita la forza dell’universo. L’Uomo è il Cosmo!
La
favolosa ricerca di Umberto Pasqui, inutile dirlo, in un barlume di
memorabile pensiero, rievoca l’epico, ariostesco, metaforico volo
di Astolfo sulla Luna, nell’intento di recuperare lo smarrito senno
d’Orlando. Chiaramente non è sul confronto etico che si deve
valutare quest’opera, dal tono affatto diverso, in quanto libera,
sciolta narrativa, fiaba intabarrata nel reale.
L’originalità del nostro autore
s’intravede, ed in toto, nell’attribuzione di consistenza ad
un’avveniristica ipotesi di vita eretta in un comunitario universo
economicamente saldato addirittura da un’unitaria moneta, capace di
regolare transizioni e servizi a livello interplanetario: il Sole.
Dove, circa un altrettanto comune linguaggio, persino un umanissimo
“perbacco!” o “perdinci!” trova coerente traduzione in una
cosmica, compatta esclamazione: “Pleiadi
brillanti!”.
E,
similmente all’ordinaria qualifica che inquadra noi gente di Terra
come “Terrestri”, gli abitanti della Luna sono detti Lunestri,
quelli di Marte, Martestri
e via d’un siffatto passo.
Non
sorprenda, poi, che sulla Luna possano essere collocate allegoriche
zone tali al Mare delle
parole, alla Rocca
delle domande ed
all’antagonista Rocca delle
risposte, quando, prima ancora
s’apprende che, sorta d’Atlante di viaggio, uno strumento
informativo tale a l’Enchiridio
del nocchiere celeste è in
grado di rispondere pressoché ad ogni richiesta di carattere non
solamente figurativo e geo-topografico ma più ampiamente pratico,
locomotorio e logistico («libro manuale per colui che volesse
intraprendere un viaggio dal pianeta Terra alla Cintura del
Centauro», ai confini dell’universo).
Penso sia giunto il momento di fare i
conti ognuno un po’ per sé, leggendolo questo entusiastico regalo,
l’ennesimo che Umberto Pasqui ha voluto farci. Nel leggerlo, non lo
si potrà che gustare. Ne sono sicuro!
Emilio Diedo
(Prefazione di "Saturno e l'Assoluto")
Un altro piccolo contributo storico
Nicholas Farrell e Giancarlo Mazzuca, per l'editore Rubbettino, hanno pubblicato "Il compagno Mussolini".
Così si legge in copertina:
Lo scopo di questo libro è quello di dimostrare una verità negata. La scelta di Mussolini - a causa della Prima guerra mondiale - di abbandonare il socialismo internazionalista a favore del socialismo nazionalista (che poi diventò il fascismo), fu una tra le scelte più importanti del Novecento, non solo per l'Italia ma anche per l'Europa e per il mondo. La scelta che Mussolini fece nel 1914, però, non fu da cinico assetato di potere o da corrotto al soldo della borghesia, ma da devoto socialista rivoluzionario: la guerra gli aveva fatto capire che gli uomini sono più fedeli alla loro nazione piuttosto che alla loro classe. Per Mussolini dunque la Prima guerra mondiale fu una guerra rivoluzionaria e non reazionaria. (...).
E io che c'entro?
Grazie a una piccolissima collaborazione mi sono meritato
un ringraziamento a pag. 311 e una citazione a pag. 335.
http://www.store.rubbettinoeditore.it/il-compagno-mussolini.html
un ringraziamento a pag. 311 e una citazione a pag. 335.
http://www.store.rubbettinoeditore.it/il-compagno-mussolini.html
giovedì 21 agosto 2014
Rassegna solenne
Rassegna solenne è il titolo di un grosso volume pubblicato per l'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove. Solenne un po' per lo spessore (in tutti i sensi) ma anche per l'occasione rilevante del centesimo numero della Rivista dell'Osservatorio. Fa il paio con l'Antologia giubilare “Altro non faccio” pubblicata nel 2011. Artefici sono l'ideazione e il coordinamento di Melinda Tamas-Tarr, ferrarungherese che da anni, con tenacia, porta avanti iniziative culturali. L'antologia, pertanto, in oltre seicento pagine contiene opere di quasi cinquanta autori ungheresi e italiani, classici e contemporanei.
Si tratta, dunque, di un
importante e corposo “assaggio” bilingue di quanto, nella
considerevole esperienza della Rivista, è stato
fatto. Una Rivista, tra l'altro, che grava sulle spalle
dell'indefessa Melinda Tamas-Tarr che con orgoglio e senza troppe
smancerie promuove un significativo lavoro di collezione e valorizzazione delle culture italiana e ungherese di ogni tempo.
Per la “squadra” di
scrittori o poeti italiani scendo in campo anch'io, tra le pagine 424
e 441. E con me grandi firme del passato, tra cui il mio concittadino
Lorenzo Stecchetti (cioè Olindo Guerrini) e Guido Gozzano. Tra i
vivi, posso fare i nomi di Gianmarco Dosselli, Ivan Plivelic, Ivan
Pozzoni, Emanuele Rainone, Franco Santamaria, Mario Sapia, Ambra
Simeone. E tanti altri che si sono dedicati maggiormente alle
traduzioni o alla saggistica. E poi c'è un'ampia fetta magiara, con
nomi difficili da ricordare (e da scrivere) ma assolutamente da
scoprire e approfondire.
Mi piace citare
l'argentino Fernando Sorrentino che in quest'antologia ripropone
l'ormai classico L'irritatore (in
seconda stesura), sempre godibile a leggersi.
Per quanto mi riguarda,
sono stato selezionato con una poesia, un saggio breve ed alcuni
racconti. Tra questi: Il canto di mezzanotte (più o meno
l'evasione di un cucù dall'orologio), Nel giardino degli
iperborei (un'avventura finita male per improvvidi
escursionisti), Il principe degli asteroidi (un personaggio
speciale, capace di scrivere con le stelle), Abbagli (cioè
dell'avidità, in salsa cinquecentesca, per l'oro nelle Indie
occidentali), Zuriva (un'enigmatica città scomparsa sotto il
mare, forse), Mutevoli identità (un disagiato assume falsi
sé, solo per apparire), In via del tutto eccezionale (su
questa strada, le persone hanno tutte la stessa faccia, a meno
che...), L'ultima cosa che arriva (una voragine inghiotte
tutto, ma ci si penserà poi).
Ecco dove trovare il volume:
Altre informazioni:
Umberto Pasqui
mercoledì 20 agosto 2014
Dritto al cuore
A fine maggio m'imbatto
nella selezione per un'antologia a scopo benefico, scrivo un
racconto, lo invio: così il mio Ormelie di Ravaldino è stato
inserito tra le pagine di Dritto al Cuore. L'iniziativa, a cura di
Igor De Amicis, Sira Terramano, Vincenzo Valeriani è pubblicata da
Galaad Edizioni. Vanta una prefazione di Andrea G. Pinketts e
all'interno si può trovare un racconto di Carlo Lucarelli (Questo
cuore nero).
Il volume di quasi 150 pagine si propone come antologia del mistero, del grottesco e della follia. Il ricavato verrà devoluto al progetto “Mettici il cuore” dell'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
La raccolta è scandita da un centinaio di brevi racconti.
Il volume di quasi 150 pagine si propone come antologia del mistero, del grottesco e della follia. Il ricavato verrà devoluto al progetto “Mettici il cuore” dell'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
La raccolta è scandita da un centinaio di brevi racconti.
Vi si
riconoscono, oltre a me, altri due romagnoli: Ferdinando Borroni (A
Natale siamo tutti più buoni)
ed Enrico Teodorani (Con la gentilezza si ottiene tutto).
Se il primo vuole spiazzare
con un'osservazione sulla “bontà” che da apparentemente morale
diventa sensibile (il gusto), il secondo ripropone Durìn che
risolve, a suo modo, una vicenda d'affitto altrui, con la pistola,
ovviamente.
Il quadro
di Sonia Tortora si tramuta, per la protagonista, da realtà dipinta
a realtà vera mentre con ironia, Bruno Zaffoni, porta Il
cappuccio rosso noto al mondo
delle favole in commissariato.
Il piccolo lago
di Lodovico Ferrari nasconde una creatura mostruosa malgrado
l'apparente pace (messa in dubbio da qualche preavviso), al contrario
La strage di Bruno
Elpis muove da tinte fosche per sortire un esito ben diverso da
quanto ci si aspetterebbe. Patrizia
Benetti concentra l'attenzione sullo sguardo inquietante di una
sorellina incendiaria (La Fattoria)
e un compleanno importante è descritto da Alberto Cola (Poi
passa), arricchito da varia
umanità.
Altre
decine di racconti sarebbero da citare, ma tanto vale acquistare il
libro.
Sono
storie che, sebbene non tutte risuonino sinistre, partono da un
presupposto misterioso. Singolare per un'antologia benefica a favore
di bambini.
Ma Sira Terramano, nell'introduzione spiega che destinatari del libro sono i “lettori accaniti di un genere che non ha età”. Più copie si vendono, infatti, più bambini si aiutano. Con questo spirito, Andrea G. Pinketts, nella prefazione, osserva che “se scrivi di cuore hai un fine, non una fine”.
Ma Sira Terramano, nell'introduzione spiega che destinatari del libro sono i “lettori accaniti di un genere che non ha età”. Più copie si vendono, infatti, più bambini si aiutano. Con questo spirito, Andrea G. Pinketts, nella prefazione, osserva che “se scrivi di cuore hai un fine, non una fine”.
Con
Ormelie di Ravaldino
ho immaginato che, nel prato adiacente alle carceri forlivesi,
siano impresse delle impronte cantanti, definite per crasi
semantica: “ormelie”. Che cos'hanno da cantare? Visto che si è
vicini alle prigioni, il cantare è più che altro un parlare. Un
parlare derivante dalle voci delle vittime di un efferato assassino
di cui da tempo si sono perse le tracce.
In attesa che qualcuno, finalmente, si fermi ad ascoltare.
In attesa che qualcuno, finalmente, si fermi ad ascoltare.
Per
saperne di più:
Umberto
Pasqui
Su "Noir in Romagna"
Che intervistona sul blog "Noir in Romagna": grazie!
Umberto Pasqui, forlivese, non è uno scrittore noir, ma uno scrittore tout court, con una prosa originale, che di tanto in tanto si è dilettato anche nella scrittura di racconti gialli.
Per sapere come va avanti:
http://vittoriodelponte.blogspot.it/2014/08/intervista-umberto-pasqui.html
***
Noto però che a oggi (24.2.19), il blog è sparito e con esso quanto contenuto.
Ho recuperato quanto vi era scritto che qui incollo:
Vorresti presentarti brevemente ai visitatori del blog?
Sono giornalista pubblicista, dottore in Giurisprudenza, dottore in Scienze religiose, insegnante. Ho sempre coltivato la passione per la scrittura. Di carattere riservato, evito volentieri di farmi troppa pubblicità e prendermi sul serio come “scrittore”. A meno che non siano altri a scoprirmi. Sono semplicemente uno che scrive e pubblica delle storie. Non saprei etichettare il genere dei miei racconti; essendone geloso non amo che qualcuno lo faccia per me. Mi occupo anche di storia locale (romagnola, forlivese) e di birra.
Quali sono gli autori che più ti hanno influenzato?
Ammetto di non essere un gran lettore, quindi non credo di subire influenze. Ho imparato a leggere prima di andare a scuola, grazie a Topolino e alle targhe delle automobili. Certo, mi piacciono i racconti brevi che si prestino a sviluppi metafisici e surreali. C’è chi legge in ciò che scrivo riflessi di Calvino (mi hanno sempre suggestionato le sue “Città invisibili”) o Verne, o situazioni kafkiane. Ma credo che più che altro sia stato influenzato da quadri, quelli di mio nonno Enzo.
A chi ti ispiri per i tuoi personaggi?
A chi vedo in giro, a chi incontro, a cose che mi succedono o che immagino. Prendo un po’ di qua e un po’ di là e misteriosamente ne viene fuori una storia. Non so, a me sembra una cosa semplice.
I tuoi personaggi spesso hanno nomi inusuali o arcaici: come mai questa scelta?
Perché abbiamo la fortuna di parlare e di scrivere nella lingua più bella del mondo. Quindi evito il più possibile voci “aliene” e vado alla ricerca di espressioni pure e fresche, non inquinate dal contemporaneo sebbene spesso mi piaccia coniare neologismi. Mi curo di riscoprire parole obsolete e dimenticate, avendo premura di non appesantire la narrazione. I nomi inusuali partono appunto da questo presupposto: probabilmente sono bastian contrario e sto bene alla larga dal dare, per esempio, nomi inglesi ai miei personaggi. Perché spesso i “miei” nomi sono legati al luogo in cui abito, hanno un legame affettivo, o sono evocativi, o sono semplicemente desueti. Mi pare, paradossalmente, che puntare tutto sul locale sia più originale e meno provinciale che omologarsi nel presente globalizzato.
Quando scrivi segui una scaletta fatta preventivamente o ti lasci semplicemente guidare da un'idea?Quando seguo una scaletta è la volta che non porto a termine il progetto. In genere fisso dei punti, non necessariamente consequenziali, e la storia nasce da sé, dai particolari, da cose che noto nella quotidianità, fatti, persone, nomi, luoghi, sogni. Prendo appunti e poi, anche a distanza di anni, ne traggo qualcosa.
Cosa stai scrivendo ora? Oppure eventuali progetti futuri?
Più che altro, adesso, mi dedico alla saggistica: la storia locale è una mia grande passione. Non avendo preso mai tanto sul serio i miei racconti li pubblico in proprio, nell’eventuale attesa che un editore se ne accorga. Per il resto, non perdo occasione di partecipare a concorsi per la realizzazione di antologie, meglio se cartacee.
martedì 19 agosto 2014
Costellazione 21
Tra le pagine di Costellazione
21 è accolto il mio Oceania. L'antologia, curata per EF Libri da
Andrea Teodorani, raccoglie ventun racconti di fantascienza. Il risultato è
un'alchimia curiosa. L’arcana profezia sibillina delle Aquile di Ferro (del curatore) viene realizzata nel rapporto di
fiducia tra un nonno ascoltato da un solo nipote, tenerezza che però lascia il
futuro con un punto interrogativo. In effetti, se il tema è la fantascienza,
spesso si suole scrutare il cielo, cercando di andare oltre ai confini della
vista umana alla ricerca del mistero. Oltre allo spazio c’è anche la coordinata
del tempo da cui prende spunto la vicenda delle gemelle Oche di Marco Bertoli; le protagoniste dal cognome Anseri (“anseres”
sono le oche latine) sono attratte in tutti i sensi dalla storia romana. Bruno
Elpis, in Ventunesimo secolo, offre
in un lungo contributo gli aneliti, da sempre presenti nell’uomo, verso l’immortalità.
Il piglio positivista di un’umanità proiettata più sui satelliti di Giove che
sulla terra poi si approfondisce ponendo interrogativi etici sull’opportunità e
sul dramma esistenziale di una vita in un “mondo prolungato”. Ultima stella
della costellazione è Spazio nero di
Enrico Teodorani, in poche parole l’amaro che viene servito dopo una lauta
cena. In un sorso, si svela la vera natura di un apparente dialogo: è un
soliloquio. Tra gli altri autori, si citano Davide Rigonat, Alessandro
Maiucchi, Francesco Grimandi, Davide Schito, Patrizio Pacioni, Mauro Cancian,
Francesca Paolucci.
In Oceania racconto della “Grande Spedizione”, cioè dell’idea di un
vago e visionario Presidente di conquistare l’oceano, colonizzandone ogni “cubacqua”.
Ciascun abitante del pianeta è chiamato ad esplorare e a dare il nome a una
porzione di spazio liquido. Arturo Stella, in tale circostanza, s’imbatte in
una scoperta sorprendente e inattesa. Specialmente quando un incidente rende
evidente le impreviste possibilità di una rinascita subacquea. Lo stile, se mai
qualcuno se ne fosse accorto, a volte, specialmente all’inizio, sembra
ripetersi, si ripropongono argomenti già espressi. L’espediente vuole imitare
la discesa lenta e circolare, a tempo di valzer, verso le profondità marine.
Ecco dove e come acquistarlo:
Note in nero
Enrico Teodorani, per EF Libri, ha
curato l’antologia Note in nero.
In copertina, un sassofono tra il rosso e il nero (colori già evocativi del
contenuto) brilla ma – forse – non suona. Non ci sono, pare, dita che manipolino
l’emissione dei suoni. Però le “note” comprese in questa singolare antologia
sono venticinque: venticinque racconti tra i quali mi pregio di contribuire con
il mio Nota sul diario. Singolare perché
offre un tema al già esplorato genere “noir”, dando dei binari ben precisi e il
risultato è ampiamente positivo. Apre le danze l’ormai familiare Durìn, caro al
curatore, nel bel mezzo di un concerto jazz (e qui troviamo il sassofonista).
Il finale di Musica in nero spiega i
motivi per cui la scena si svolge in quel contesto, in salsa bolognese, tra
note, foglietti, coltelli. Con la consueta (per Enrico Teodorani) freddezza “a
sorpresa”, il racconto si sviluppa e si esaurisce in poche, essenziali, efficacissime
battute. Misurati e, ciascuno a suo modo, armonici sono pure gli altri testi.
Se il Viaggio nel buio di Francesca
Paolucci fa venire la pelle d’oca per il tema e la narrazione che, con spietata
semplicità, fa emergere un incubo che molti hanno, la malinconica sparizione di
Lucinda e il violinista di Cristiano
Tanduo offre ombre, più diluite nell’esposizione, altrettanto angoscianti e
misteriose. Gli altri autori scelti per quest’antologia sono: Federica Gaspari,
Davide Schito, Andrea Bindi, Valentina Iuvara, Fabio Girelli, Renzo Maltoni,
Marco Parisi, Marco Bertoli, Bruno Elpis, Sam Stoner, Nunzio Campanelli,
Valeria Barbera, Davide Rigonat, Mariarita Cupersito, Daniela Piccoli, Andrea
Teodorani.
Con Nota sul diario ho voluto percorrere la vicenda misteriosa di Davide,
eponimo del capolavoro di Michelangelo custodito alle Gallerie dell’Accademia a
Firenze. Qui trova il modo di uscire da una vecchia fobia per la musica,
risalente a un episodio scolastico, per passare, all’opposto, a una mania
ossessiva per uno strumento raro e obsoleto. Riuscirà a costruire una tromba
marina tutta sua ma poi farà perdere le tracce di sé.
Ecco dove e come acquistarlo:
Altri riferimenti qui:
http://enricoteodorani.blogspot.it/Umberto Pasqui
Ventidue pallottole
La copertina provocante di Ventidue pallottole ha provocato
(appunto) qualche prurito quando ho donato una copia del libro in Biblioteca. L’antologia,
curata per EF Libri da Enrico Teodorani, ha selezionato ventidue racconti noir
di autori italiani. Mi sono cimentato anch’io in un genere in cui in genere non
oso cimentarmi, e così è stato accolto il mio Vicini di casa. Il curatore, e questo, almeno a me, lo rende
simpatico, ambienta le sue storie in Romagna, una terra che come luogo comune è
solare e godereccia, ma come luogo vero ha non poche venature nebbiose,
umbratili e livide. L’algido e rude Durìn, giustiziere di nuìtar, regola i conti con una tedesca in Una bionda per un duro lasciando poco spazio ai sentimentalismi.
Una brutta fine fa anche “lo spilungone” della Notte nera, altro contesto in cui il Durìn di Enrico Teodorani
applica il suo personale codice penale. Nemmeno La spiona di Massimo Baglione non esce viva in quanto “ostacolo” di
un amore nato nella virtualità e posto ai primi riverberi della realtà con
risvolti inquietanti. Un omicida seriale allo specchio non sa perché sente il
bisogno di uccidere, così in Dentifricio
di Fabio Girelli si leggono domande senza risposta che si sciolgono in un “E’
così terribile, non avere un motivo?”. Particolarmente amare sono le Confessioni di una poliziotta in cui
Francesca Paolucci dipinge sapientemente la presa di coscienza di una donna
alle prese con un mestiere che mette a dura prova corpo e anima. Altri autori
selezionati sono: Nunzio Campanelli, Daniela Piccoli, Francesco Grimandi,
Angela di Salvo, Stefano Andrea Noventa, Fabio Giannelli, Andrea Teodorani,
Alessandro Maiucchi, Sam Stoner, Bruno Elpis, Valeria Barbera, Graziano
Sardello, Lorenzo Spurio, Cristiano Tanduo.
Con Vicini di casa ho voluto raccontare, ambientandolo cent’anni fa e
prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente successo, un intreccio tra
dirimpettai. Una vedova salva i figli del caffettiere del Pubblico giardino da
un incendio e a sua volta è vittima del cognato perché aveva osato innamorarsi
di un maestro di musica dagli occhi brillanti, molto più giovane di lei. I due
amanti giacciono sotto il manto del Pubblico giardino ma nessuno, a parte il
caffettiere, ha capito che cosa è successo.
Ecco dove e come acquistarlo:
http://www.efedizioni.com/cat140_p156.htm
Altri riferimenti qui:
http://enricoteodorani.blogspot.it/
Umberto Pasqui
Iscriviti a:
Post (Atom)