Personaggi romagnoli a cura di Gilberto Giorgetti
UNA DELLE PRIME BIRRE ITALIANE È NATA IN ROMAGNA CON GAETANO PASQUI
E’ RUMAGNÔL – Periodico telematico di informazione e cultura romagnola
Anno II - N° 11 – Novembre 2010 Pag. 11
Si ritiene che i Pasqui da Città di Castello si siano trasferiti a Forlì per motivi politici.
Pur non conoscendo i veri motivi del trasferimento si presume che i Pasqui fossero dei proprietari terrieri e avessero preferito venire nella napoleonica Romagna, Forlì in particolare, dove poterono “coltivare” i loro interessi per l’agricoltura e per la politica.
Era il 1847 quando Gaetano Pasqui iniziò la coltivazione del luppolo e poi la produzione della “Birra Pasqui” alla “Bertarina” di Vecchiazzano.
Oggi la località dove era la villa Pasqui, con annessa casa colonica, ha nome Ca’ Ossi.
A quel tempo il borgo era formato da un piccolo gruppo di case lungo la riva destra del canale di Ravaldino, per la strada che conduce a S. Martino in Strada. Non c’era neanche la chiesa.
Infatti gli abitanti di Ca’Ossi dovevano assistere alle funzioni della chiesa di S. Martino in Strada.
Quando i Pasqui vennero ad abitare a Forlì la situazione economica e il grado di istruzione erano fortemente precari: la gente era povera, obbligata a lavorare in cambio di pochi soldi sotto padroni e fattori che spesso si dimostrarono incapaci di far fruttare appieno il loro terreno.
I governanti erano spesso corrotti e a rendere ancor più incerto il futuro delle famiglie ci si misero pure le rivoluzioni del 1831 -1843 - 1845 - 1848/49. In quegli anni, dettato anche dal malcontento popolare, il fenomeno del brigantaggio vide un forte incremento. Così Stefano Pelloni detto il “Passatore”, da “mite” traghettatore del fiume Lamone si tramutò in un fuorilegge che, inforcate le armi, dal 1849 al 1851 terrorizzò le Legazioni papaline della Romagna, cioè le province di Bologna, Forlì, Ravenna e Ferrara, sconfinando all'occasione anche nel Granducato di Toscana. In questo clima socio-politico Gaetano Pasqui in un suo fondo alla “Bertarina” si mise a coltivare una trentina di piante di luppolo, ma i primi risultati li vide solo nel 1850; lo stesso anno in cui fu smantellato il ponte romano detto dei “Morattini” per ampliare l’attuale corso Giuseppe Garibaldi. Il ponte, per le sue modeste dimensioni, era diventato insufficiente al traffico, in una città che già aspirava a diventare capoluogo di provincia. Una prima testimonianza della “Birra Pasqui” è documentata da un fascicoletto del 1861, composto da quindici pagine scritte e cinque illustrate. Mentre il libretto usciva dalla stampa, a pochi metri dal podere e dalla casa Pasqui, sul posto dove l’alluvione del 1842 fece rovinare l’antico ponte del 1451 e, come descrive lo storico Timoleone Zampa, “fu posta una gran trave attraverso al fiume con un parapetto di legno per comodo dei viandanti, per non dovere passare il fiume a guado”, l’11 luglio dello stesso anno si inaugurava il nuovo ponte progettato dall’ing. Giulio Zambianchi, lo stesso ingegnere che aveva rinnovato il Duomo a Forlì.
Oltre alle regioni del nord, tra le prime ad intraprendere la produzione della birra in modo semi-artigianale c’è anche la Romagna. In effetti, le prime industrie nazionali risalgono alla
Wührer di Brescia (1829), alla Peroni di Vigevano (1846), poi trasferita a Roma e alla Moretti di Udine (1859).
Nella prima “Monografia Statistica, Economica, Amministrativa della Provincia di Forlì” del 1866 è scritto quanto segue: “Il sig. Gaetano Pasqui ha introdotto la fabbricazione della birra ed ha iniziato la coltivazione del luppolo. L’attività si svolge essenzialmente per sei mesi all’anno ed occupa ordinariamente due operai. Nel 1863 sono state smerciate 35.000 bottiglie, anche fuori della Provincia”.
Con la produzione della birra, Pasqui raggiunse una certo agio economico ed una certa notorietà, tanto che nel pomeriggio del 16 aprile 1871 Gaetano organizzò un incontro presso la sua villa, al quale parteciparono alcuni leaders repubblicani e circa 700 invitati. L’incontro si svolse sul prato dove si banchettò a salame, agnello e paste, tutto accompagnato da un ottimo Sangiovese.
La birra prodotta da Gaetano Pasqui Nel 1847, oltre a Gaetano con la moglie Geltrude Silvagni e i figli Livia e Tito, di un anno appena, viveva nella stessa casa anche il fratello Giovanni, con la moglie Paola Vitali e i figli Eugenia, Domenico e Vittoria. Fu allora che Gaetano, senz’altro studio che l’osservazione e la curiosità, inventò la prima birra prodotta con luppolo italiano.
Era già un produttore di birra, ma il costo del luppolo importato dalla Germania era diventato proibitivo: e allora pensò di introdurne la coltivazione in Italia. Aveva notato, infatti, che qua e là qualche piantina di luppolo selvatico cresceva con vigore anche nei nostri campi. E allora provò a raccoglierle, a studiare “i precetti degli scrittori su tale argomento”. Solo nel 1850 ebbe le prime soddisfazioni e il luppolaio crebbe in modo esponenziale: fino a stipare un ettaro del suo fondo con oltre tremila piante.
Nel 1856 conseguì una medaglia in occasione dell’Esposizione provinciale di Forlì, e altri riconoscimenti a Firenze (1861) e Londra (1862) fecero uscire allo scoperto il lavoro dell’agronomo. Nella cittadina alsaziana di Haguenau, dal 10 al 20 ottobre 1867 si svolse un’Esposizione internazionale dedicata a “houblons, bières & matériel de brasserie”. Nel
catalogo degli oggetti esposti, risulta che Gaetano Pasqui era l’unico espositore italiano presente. “Ottenuti tali risultati avrebbe voluto il Pasqui aumentare i Luppoli, ma il terreno da esso posseduto è di limitata estensione, e non del tutto adattato a
tale coltura per essere costeggiante ad un fiume…” .
Pertanto, tramite la rivista “Incoraggiamento” di Bologna e nelle pagine de “La Nazione” di Firenze, scrisse un avviso col quale vendette tutte le piante di luppolo che fino ad allora aveva coltivato a casa sua:
“Gaetano Pasqui coltivatore di Luppolo e fabbricatore di Birra in
Forlì, desideroso che venga propagata la
coltivazione della predetta pianta fra noi
italiani,(…) pone in vendita i polloni a L.5 il
cento dei quali potrà disporne circa 4000… A
facilitare poi l’impianto di Luppolaie, il Pasqui
stesso offre ai nuovi coltivatori di loro
somministrare le pratiche cognizioni in
proposito, ed anche l’opera sua onde assicurare
la promessa riuscita…”.
Con la fine della coltivazione del luppolo in casa, la Birra Pasqui, che al 1861 era stata
smerciata in 35 mila bottiglie, arresta la sua produzione, benché fino a tutti gli anni ’70 dell’800 fosse ancora venduta, in limitate quantità, al Caffè gestito da Domenico Pasqui, figlio di Giovanni, nel Rialto piazza. In tempi in cui la vite in pianura sembrava destinata a scarsa fortuna a causa di un insetto, la filossera, che attaccava le piante uccidendole, forse la Romagna poteva diventare la terra della birra e le luppolaie potevano essere familiari come i vigneti oggi.
Ma così non fu. Curiosamente, il figlio Tito fu un grande sostenitore del vino:
contribuì a sconfiggere la filossera, e a promuovere l’enologia romagnola e italiana in diversi convegni europei.
Oltre al luppolaio di casa, Gaetano ne aveva impiantato un altro a scopo di studio, nel 1865 a Villa Pianta, presso il podere di seimila metri quadrati della Stazione agraria di Forlì, di cui era assistente agronomo. Questa luppolaia fu smantellata nel 1870, per far posto a una piantagione di barbabietole. In una relazione inviata al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio del 1871, Gaetano Pasqui scriveva:
“In questo terreno negli anni precedenti si coltivò il Luppolo,
pianta aromatica importante della quale da molti anni primo
introdussi nell'Emilia la coltura, che ottenne premio distinto alla
Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 e alla Mostra
universale di Londra del 1862, ove il mio luppolo fu trovato ricco
di luppolina come quello di Germania, del quale ora si fa tanta
importazione in Italia, mentre dovremmo esonerarci da questo
tributo che paghiamo agli stranieri, perocché il luppolo prospero
vegeta e dà ottimi ricolti anche nella nostra regione”.
La Birra Pasqui non sopravviverà a Gaetano, morto nel 1879, ma in tempi recentissimi, nel terreno circostante la vecchia “fabbrica”, erano ancora visibili i vasconi circolari per far fermentare il luppolo.
Gaetano Pasqui fu anche modellista e inventore di strumenti per l’agricoltura, come il polivomero-copriseme, il carretto Pasqui, o gli attrezzi specifici per le luppolaie: ovvero il levapertiche, il piantapertiche e lo zappetto-ronca.
Infatti “si studiò di rendere gli istrumenti rurali che d’ogni parte s’importavano, vantaggiosi alla agricoltura regionale. Non gli capitò innanzi apparato ch’ei non esaminasse diligentemente e non correggesse e migliorasse ove se ne manifestasse l’opportunità. Così modificò l’aratro Zelaschi, trasformando la bure, rialzando l’orecchio, aggiungendo il carretto; come pure portò cambiamenti in altri aratri e strumenti che furono giudicati utilissimi dai più esperti agricoltori. Si resero con ciò tali istrumenti adatti alle condizioni peculiari delle nostre coltivazioni e fu a ragione che le macchine del Deposito Governativo in Forlì venissero maggiormente encomiate e richieste. Nel 1867 (scrive il prof. Madalozzo) vedendo come l’uso di solcare il campo a porche larghe e male allineate, assai diminuisse il prodotto e assai di sementa sciupasse, inventò un attrezzo di cui si occuparono i più rinomati fra gli agronomi d’Italia e a cui fu dato il nome di
Coprisemi inquadernatore dal Botter, e di Polivomero copriseme dal Ricca-Rosellini, nome quest’ultimo che gli restò, aggiungendovisi quello del sagace inventore. Non ne farò la descrizione, nota ai più; questo vo’ dire però che nella mostra universale di Parigi del 1867 le due cose più ammirate, anzi le sole ammirate fra gli arnesi agrari, erano il Polivomero Pasqui e il ravagliatore Certani”.
L’infaticabile Gaetano si spense il 19 giugno 1879 all’età di 72 anni: è attualmente sepolto nella tomba di famiglia al cimitero monumentale di Forlì.
Il prof. Maddalozzo, chiamato a recitare l’orazione funebre, così concluse: “Fu integerrimo di carattere, semplice di costumi, affabile con tutti, pieno d’amore per la famiglia, per i parenti, per gli amici. Egli ha lavorato, riposi. Ma non riposate voi, o giovani, a cui si dischiude balda e promettente la vita; fate tacere nell’animo le inquiete passioni, e raccoglietevi nella santa operosità del lavoro, perché da voi molto aspetta la Patria. Né vi scoraggino gli ostacoli o la sfiducia nelle vostre forze... Ricompensate la sua virtù imitandolo, e nell’estremo addio che gli diamo ringraziamolo per la patria e per la scienza, a cui nobilmente ha servito”.