sabato 10 dicembre 2011

In due recenti antologie

ALTRO NON FACCIO Per onorare l'esperienza lunga ormai quindici anni dell'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove (cui mi pregio di collaborare assiduamente da un decennio), Melinda Tamas-Tarr, anima di questa realtà culturale, ha pensato di pubblicare una ricca antologia. Anche il mio nome compare tra gli autori. Nella sezione "Contemporanei italiani, ungheresi e d'altrove" sono presente con due racconti e un saggio. Pasqui Umberto: Incastri, La casa delle voci (Luci, Inquieto vivere, La doppia coppia; Haydn, oh Haydn; Ombre); Lo strano caso delle anatre affagiolate (saggio) 392 Inoltre, sono presente nella sezione "Raccolta delle opere in lingua ungherese" con tre raccontini tradotti in ungherese da Melinda Tamas-Tarr. Da notare chi c'è prima e dopo il mio nome... B. Tamás-Tarr Melinda: Válogatott műfordítások (Dante Alighieri, Assisi Szt. Ferenc, B. Cellini, M. Buonarroti, G. Gozzano, J.M. De Heredía, J. M. Heredía, Ismeretlen Szerző, G. Leopardi, U. Pasqui, F. Petrarca, E. Pietrangeli, Cs. Rubino, F. Sorrentino, Melinda Tamás-Tarr, P. Verlaine) 554 Per saperne di più: http://www.osservatorioletterario.net/copgiubil.pdf http://www.osservatorioletterario.net/ *** 256K Il mio nome compare anche tra i 256 autori selezionati per l'antologia "256k" pubblicata da BraviAutori e curata da Massimo Baglione e Massimo Fabrizi. Nonostante che non sia un fanatico del "retrocomputing" (come si legge nel bando) nè tantomeno apprezzi anglofonie e gergo informatico, mi sono cimentato in questo tema. Il mio racconto brevissimo (è il numero 117) s'intitola "Rimani qui". Come richiesto, misura circa mille battute. Per chi fosse curioso, l'antologia è disponibile come libro cartaceo: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=672014 Oppure come libro elettronico: http://www.lulu.com/product/ebook/256k---256-racconti-da-1024-karatteri/18724652

giovedì 1 dicembre 2011

Adelaide Controvento

Non solo birra...Pubblico qui questo mio racconto già pubblicato nella mia raccolta "Un po' l'ora notturna" (Kimerik, 2006) ora fuori catalogo.
http://http//birrapasqui.blogspot.com/p/un-po-lora-notturna.html

1
Ogni giorno della nostra vita è arricchito da incontri con le tante persone che vediamo attorno a noi. E’ vero, vediamo tante persone, ma spesso a sera non ne ricordiamo i lineamenti; anche se ci sforziamo ogni tentativo è vano. Se invece fermiamo uno che non conosciamo e parliamo con lui o lo aiutiamo, o da lui siamo aiutati, il suo volto per qualche tempo rimarrà impresso nella nostra memoria. Adelaide amava incontrare diverse persone, parlare con loro di ciò che a loro faceva piacere, metterle a proprio agio o rendersi utile per qualsiasi bisogno altrui. Ogni volto umano per lei era un mistero di curiosità, uno scrigno di segreti: nessuno le era indifferente, ciascuno era degno d’attenzione, d’esser ascoltato, d’essere scoperto. Così Adelaide dal viso di cerbiatto era amata e benvoluta da tutti, si rivelava carina, gentile, disponibile, attenta, e la sua compagnia era alquanto ricercata. Non per questo, e nemmeno per il suo aspetto fisico attraente e delicato, si era mai montata la testa, anzi, la sua umiltà e la sua modestia sconcertavano chi le stava vicino. Aveva qualche difetto, è vero, ma così insignificante rispetto alle sue virtù da ritenersi irrilevante.
2
Adelaide amava passeggiare nel molo, e vedere le onde incresparsi, ascoltare il gorgoglio dei motori delle barche, sentire l’odore di nafta e di pesce intridere l’aria salmastra e lasciarsi accarezzare dal vento marino. Spesso si sedeva su una bitta e chiudeva gli occhi, immaginando mondi lontani. Un pomeriggio, di martedì, era sul molo, seduta su una panchina erosa dalla salsedine, aveva il vento che le soffiava in faccia; era buono, salato, tiepido, pulito. Si rialzò per tornare a casa e notò che, anche se si stava dirigendo nella direzione opposta, il vento, quello stesso vento, le soffiava sempre in faccia. Era stupita, ma non più di tanto. S’insospettì soltanto quando, una volta entrata in casa, avvertì la medesima sensazione.
- Il vento in casa? E da dove soffia? Tutte le finestre sono chiuse… - si chiedeva la ragazza.
Piuttosto inquieta uscì per parlarne con qualcuno, ma a fatica riusciva a tenere gli occhi aperti perché il vento soffiava molto forte, a raffiche. A malapena poteva ascoltare le voci, tanto che l’udito era compromesso dal continuo fruscìo rumoroso ed assordante. Aveva notato che solo a lei stava accadendo questo strano fatto, che solo lei era sempre e perennemente controvento.
- Non può essere una coincidenza, sarà una malattia rara – pensava tra sé.
Puntò lo sguardo sul mare piatto, si volse a scatti nelle quattro direzioni ma era sempre controvento, poi, rassegnata, abbassò lo sguardo a terra, e sempre il vento le accarezzava le gote lentigginose. Era preoccupata la giovane Adelaide, seriamente in pensiero per la propria salute, sia fisica che mentale: dentro lei cresceva il fastidioso sospetto di essere vittima di un malocchio, o di una malattia della mente. L’idea della fattura le era venuta perché sapeva che lei, carina e benvoluta, era fonte d’invidia per qualche coetanea rancorosa, ma credeva poco nella magia. Stava diventando pazza? Forse sì, a suo giudizio, perché tale era l’unica spiegazione verosimile alla sua condizione. Forse erano allucinazioni le sue sensazioni.
3
Nel culmine della sua preoccupazione avvertì una voce strozzata che la chiamava:
- Adelaide… Adelaide…
S’accorse che la voce proveniva dal mare piatto del molo, e lo fissò.
- Adelaide… Adelaide…
La voce proveniva da un’alga. Un’alga? La ragazza era sempre più convinta della sua follia e, quasi divertita, volle ascoltarla.
- Adelaide… Adelaide… parlo in nome delle onde del mare, esse ti mandano a dire che sono gelose di te.
- Gelose? – reagì con tenue riso – E che cosa avrei fatto?
- Il loro principe tu hai rapito, ed ora tristi si spengono nella mestizia.
- Misericordia! – sempre più perplessa – E tutto ciò sarebbe accaduto per colpa mia?
- Adelaide… Adelaide…
Un gommone passò sopra l’alga e la fece tacere.
Qualche curioso sorrideva avendo visto la ragazza parlare col vegetale marino. Buona parte del resto della giornata fu da lei trascorsa a pensare e ripensare alle parole strozzate dell’alga. Che cosa voleva dire? Chi è il principe? E perché le onde sono di lei gelose? Sulla via di casa un pettirosso, tutto arrabbiato, le beccò i piedi soltanto difesi da sandali e la redarguì con veemenza:
- Attenta, perché tu, con quei tuoi sorrisini, hai combinato un bel guaio!
- Dimmi che cosa ti ho fatto…
- L’effetto è che volo come un pollo menomato, non più come un aggraziato pettirosso, la causa sei tu.
- Sono davvero dispiaciuta, cosa posso fare per te?
- Per me? Ah, bella mia, non solo “per me”, hai ridotto come me tutti i volatili della zona!
Il pettirosso saltellò via imprecando contro di lei. Adelaide era sempre più curiosa di sapere qual era il suo ruolo nella vicenda e perché le stavano capitando cose tanto strane. Intanto il vento le soffiava sempre in faccia.
- Tu, bambolina dagli occhi di cerva – tuonò una voce contraltile proveniente dall’alto.
Era una nuvola, anch’essa in collera con la ragazza.
- E a te cosa avrei fatto?
- Non fare la gnorri, bipede flavichiomato, sai bene che se mi manca l’accompagnatore è solo per colpa tua.
- Non so davvero che dire… se solo sapessi… se solo ti potessi aiutare…
- Ogni mia simile, pulzella scriteriata, è ora sola a causa tua, e non ha nessuno che le faccia scoprire nuove terre e nuovi cieli.
Adelaide era sempre più mortificata, non osava più rispondere ma si lasciava insultare dalla nuvola borbottante.
- Mi fai pena e disgusto, frivola callipigia, perché tu sai tutto, hai la risposta davanti agli occhi e sei complice del misfatto.
La nuvola, ciò detto, tuonò e si dissolse.
4
In quel momento nella testa di Adelaide passava ogni sorta di pensiero. Era curiosa, e allo stesso tempo angosciata; a tratti riteneva divertente parlare a cose o ad animali, ma a volte pensava che ciò fosse sconcertante e ben presto le tornava in mente l’idea di aver contratto una malattia sconosciuta. Aveva appena dialogato con un’alga, un pettirosso e una nuvola, e tutti questi l’accusavano per qualcosa di cui non sapeva nulla. Decise che era meglio non parlarne con nessuno, altrimenti chissà cosa avrebbe suscitato, ma sentiva altresì che affrontare da sola questo grave, poteva diventare di difficile sopportazione. Avrebbe voluto sfogarsi, ma non osava. Pur avendo tanti amici in quei momenti si sentiva tremendamente sola. Detestava la solitudine, ma riteneva che nessuno potesse darle un consiglio né esserle d’aiuto. Tornò sul molo, su quella panchina erosa dalla salsedine per capire qualcosa: sempre e ancora il vento le soffiava in faccia.
5
Chiuse gli occhi ascoltando i rumori del molo finquando sentì una voce che chiamava il suo nome:
- Adelaide… Adelaide…
- Dimmi, alga – rispose senza aprire gli occhi.
- Alga? Io non sono un’alga! Guarda bene.
La ragazza aveva davanti a sé, per terra, ai suoi piedi, un aeroplanino di carta: era possibile che fosse lui a parlare?
- Sì, sono io… - disse alzando la voce.
- Di che cosa hai bisogno? – domandò Adelaide con aria di sufficienza; ormai era abituata a tali stranezze.
- Ti rendi conto che sono inservibile?
- Mi dispiace.
- Solo questo sai dire: “mi dispiace”?
- Non hai capito ancora niente? – borbottò un’altra voce da non lontano.
Era un aquilone steso a terra col filo attorcigliato su se stesso.
- Se non mi spiegate… - riprese a parlare la ragazza, sempre più svogliata.
- E cosa c’è da spiegare? – protestarono i due oggetti.
- Spiegatemi dove ho sbagliato!
- Ah, be… - titubò l’aquilone – evidentemente tu gli piaci.
- Sì, sì – aggiunse l’aeroplanino di carta – tu non hai voluto tutto questo, ma l’hai causato.
- Se non mi dite come stanno le cose – minacciò la ragazza ormai insofferente – vi prendo e vi butto nel cestino!
- Ehi, signorinella – rispose seccato l’aquilone e per nulla impaurito – sarà ora che usi la tua bella testolina bionda, oppure hai capito e ti stai prendendo beffe di noi, vediamo bene che non disdegni la sua compagnia.
- Sua? Di chi?
- Di chi ti sta corteggiando, e tu di certo non rifiuti.
La testolina bionda della docile Adelaide cominciò a girare perché non riusciva più a trovare il senso di ciò che stava accadendo.
- Non hai capito, stellina? – chiese ancora, con dolcezza, l’aeroplanino di carta.
- No…
- Allora è giunto il tempo che ti spieghiamo le cose per bene.
Finale
Adelaide non si era resa conto che quel giorno in cui si era seduta sulla panchina del molo aveva incontrato il vento, e il vento con lei si era incontrata. Esso l’accarezzò sulla guancia, e poi se ne innamorò. Il vento, per natura, ha un carattere capriccioso e volubile, ma talora può essere anche costante, tanto rimaneva fedele ad Adelaide che nel mondo non soffiava più, se non per baciare ed accarezzare la ragazza.

Umberto Pasqui

mercoledì 30 novembre 2011

Così mi vedete

Non solo birra...
Pubblico qui questo mio racconto già pubblicato nella mia raccolta "Un po' l'ora notturna" (Kimerik, 2006) ora fuori catalogo.
http://http//birrapasqui.blogspot.com/p/un-po-lora-notturna.html

Ci sono momenti in cui avvertiamo dei rumori misteriosi che provengono da fonti ignote, spesso sono causati dal vento, altre volte dalla nostra immaginazione, oppure sono, o sembrano, davvero inspiegabili.
Gli abitanti di V.g. da qualche notte a questa parte, sentivano un qualcosa che assomigliava, secondo certuni, ad una voce, una voce femminile proveniente dall’alto. Molti ritenevano che ciò fosse una suggestione, forse la brezza che scende accarezzando le colline porta con sé un sibilo prima inaudito, forse il vociare del giorno rimbalza nelle nostre orecchie anche durante la notte, e tutti sanno che nei sogni accadono cose ben più strane. Ma no, non stavano dormendo gli abitanti del paese, era soltanto notte, una notte silenziosa di campagna. Spesso sentivano latrare cani lontani, gli uccelli serotini che modulavano i loro canti, o, più avanti nella stagione, la frizione delle elitre dei grilli costanti e tenaci. Mai così tante persone, negli stessi momenti, avevano ascoltato la vocina soffiata, che parlava, benché le parole non s’intendessero. C’era chi guardava con sospetto il cimitero, forse qualcuno da lì era fuggito, c’era chi ascoltava ma non credeva, c’era chi non ne voleva parlare, chi gridava subito al miracolo, chi negava l’evidenza, chi si prendeva beffe di chi avanzava opinioni su quanto stava accadendo… Pur non essendo tanti gli abitanti, tante erano le considerazioni diverse che si respiravano nell’aria. Ovviamente, tra le ipotesi contemplate, non mancava quella secondo cui si sarebbe trattato di uno scherzo giocato da “non so chi” all’intera comunità.
Una cosa era sicura: la voce proveniva dall’alto.
Due o tre persone vollero salire sui tetti delle loro case per capire, scrutarono il panorama dall’alto, cercarono tra le fronde degli alberi un altoparlante o un megafono, qualcuno salì sui tralicci dell’alta tensione credendo fossero rumori causati dall’inquinamento elettromagnetico, altri accusavano il ripetitore non lontano: chi più di esso trasmetteva voci?
La teoria del ripetitore risultò piuttosto convincente, ma, richiesto il parere tecnico di un operatore del settore, i più abbandonarono anche questa strada.
E allora? Da dove proveniva quella voce?
E che cosa diceva?

A due amici del parroco venne in mente di salire sul campanile: la vetta più alta del paese, ed effettivamente da lì si potevano ascoltare le parole mormorate dall’alto:

avete guardato dovunque fuorché in cielo sussurrava e se anche adesso volgete i vostri occhi all’insù non vi accorgerete di me.

In effetti, non era facile guardare il Firmamento dall’ultimo piano del campanile, quello delle campane, sicché i due, senza dir nulla al parroco, osarono salire sulla cuspide e sedersi sui suoi bordi abitati da ostinate piantine di cappero. Ora sì che potevano vedere un bel cielo stellato, nitido e pulito, soltanto un po’ chiaro e ingiallito verso oriente e mezzogiorno, là dove si adagia la città con le sue mille luci.
Così mi vedete esultò la vocina così finalmente vi siete accorti che sono quassù. I due contemplavano solo stelle, era possibile che fosse una stella a parlare? A poco a poco una torma d’increduli s’affollò sotto il campanile, scrutando ed ascoltando i due compaesani che parlavano al cielo. Alcuni mormoravano della follia dilagante, altri sorridevano divertiti, ma presto si accorsero che una stellina brillante stava rivolgendosi anche a loro.

Così mi vedete ripeteva, e mi rivolgo a ciascuno di voi.
Ora che i vostri umili occhi umani si sono posati su di me drizzate bene le orecchie, ed ascoltatemi. Io ogni estate brillo sulle vostre teste – una tra tante – direte voi, ma così non è.
Così mi vedete, una tra tante, ma sono l’unica che dà ricchezza davvero alla vostra vita ed al vostro lavoro: voi, infatti, non sapete che senza di me le vostre viti non crescerebbero, ed avvizzirebbero rattrappendo e piegandosi fino a seccarsi senza dare frutto.
Raccogliereste solo pochi acini, aspri e poveri, da cui neppure una misura di mosto sarebbe possibile ricavare. I vostri raccolti, la vostra prosperità, il vostro ottimo vino sono solamente opera mia; non crediate che sia grazie al lavoro svolto con premura e sollecitudine, con fatica e sacrifici.

Gli ingenui abitanti del paese erano sconcertati, alcuni si ritenevano offesi ed amareggiati, ma i più nutrivano una specie di timore reverenziale che li spingeva a dare ragione all’astro petulante. Nessuno osò contraddire ad alta voce la stella, rivendicando l’importanza del proprio lavoro, nessuno manifestò il proprio disappunto, e nel villaggio si diffuse un ineffabile silenzio, rotto soltanto dai grilli costanti e tenaci. Fu però proprio dalla terra che si levò una voce contraria.

Cari abitatori del terreno che mi ricopre, non fatevi abbindolare dalle parole sciocche della stella soltanto perché brilla sopra le vostre teste, non lasciatevi sedurre dall’inganno: è una menzogna quello che dice. Se le viti che, grazie al vostro lavoro, producono uva succulenta e bella, una parte del merito deve andare a me, giacché se io non drenassi la terra, e non la rendessi fertile con le mie scorie essa sarebbe più povera. La stella è lassù in cielo, una tra tante, cosa credete che possa fare? Non datele retta e, piuttosto, ascoltatemi: vi chiedo di donarmi parte del vino – com’è giusto – perché rivendico parte del merito alla buona riuscita di esso.

Un lombrico viscido ed insignificante aveva parlato e, ben deciso, aveva avanzato le sue richieste.
Tali parole scaturirono subito la reazione della stella.

Strana notte questa, che mi vede opposta ad un verme della terra, vorrei tanto risponderti tacendo, ma lo faccio a parole, sicché tu sia umiliato davanti a tutti e torni a nasconderti nelle oscure profondità del pianeta. Tu dici di concorrere alla buona riuscita del vino della regione, tu, proprio tu! Io con un solo sguardo brillo su tutte le viti del pianeta, tu in tutta la tua vita percorrerai sì e no cinque filari. E poi osi anche avanzare richieste? Tu, viscida virgola? Ricordati che se è vero che le tue scorribande sotterranee giovano alla salute del terreno hai già la ricompensa che chiedi quando ti nutri dello stesso terreno. Che cosa esigi di più? Che cosa vuoi ancora? Guarda me, se hai gli occhi, e pensa che io brillo sui filari e non ricevo nulla in cambio. Sono io, soltanto io, in debito con questa gente: chiedo pertanto che mi venga offerto tutto il vino rimasto a partire dalle ultime quattro vendemmie.

La stella non aveva ancora terminato il suo discorso che il lombrico era scomparso tra le zolle profumate.

Ora gli abitanti del villaggio erano in pensiero perché non sapevano come fare per soddisfare la stella: non era infatti tanto un problema recuperare il vino, quanto come porgerglielo. In realtà parecchi non avevano capito molto di ciò che la stella ed il lombrico avevano detto, perché le loro parole sembravano troppo difficili ed inconsuete alle loro orecchie, più propense a distinguere i diversi canti degli uccelli che alle finezze lessicali. Ognuno pensava, c’era chi progettava una scala infinita, chi una fionda sparabottiglie, chi delle molle per saltare fino alla Via Lattea, qualcuno confidava in un miracolo… C’erano studiosi improvvisati, per lo più insegnanti in pensione, che tentavano di calcolare ad occhio nudo la probabile distanza dal suolo all’astro senza però trovare un accordo né una stima convincente. Intanto il tempo passava, e i grilli costanti e tenaci perpetuavano la loro canzone. La notte ormai era terminata, la stella incitava, scalpitava, aveva fretta perché dopo qualche ora sarebbe scomparsa, vinta dalla luce del sole. Ma la gente del paese non riusciva, con tutta la buona volontà, ad escogitare un modo concreto ed efficace per donare il vino al cielo. C’era perfino chi, recuperato un deltaplano, provò a sfruttare le timide correnti ascensionali abbozzando, nelle ultime propaggini della notte, un volo tanto incerto che non si elevò oltre il doppio dell’altezza del campanile. Qualcuno, infine, prese dei tini e vi fece bollire grandi quantità di vino che, evaporando, solo in minima parte raggiunse la stella la quale, affatto contenta, ne esigeva tanto e tanto ancora. La scala infinita non era più alta del campanile quando albeggiò sulla frazione di V.g., e la stellina scomparve sdegnata. Sopraggiunto il mattino, grazie al benefico influsso del sole, ciascuno tornò alle proprie case e prese ben presto a lavorare, dimenticandosi delle parole della stella.

Un contadino, guardando i grappoli acerbi, corse in casa a riempire un bicchiere di vino rosso: ma non era per lui, perché, una volta sotto una delle tante viti dei suoi filari, versò il liquido color rubino a terra. Da una fessura emerse il lombrico che lo ringraziò.

Umberto Pasqui

mercoledì 21 settembre 2011

L'uomo della birra - Castellani

Umberto Pasqui, L'uomo della birra


Recensione di Fulvio Castellani
(pubblicata sulla rivista "Poeti nella Società" - Anno IX - Num. 48)

Della pianta del luppolo e delle sue proprietà terapeutiche esiste una ricca documentazione. Se ne parlava già in epoca antica, tra i cinesi, tra i pellerossa che se ne servivano come digestivo e sedativo. Poi eccoci al suo utilizzo per creare la birra ed eccoci alla scoperta e alla coltivazione del luppolo italiano da parte di Gaetano Pasqui. "Iniziò a raccogliere le piantine di luppolo selvatico che crescevano nei pressi della sua città - ha scritto nella parte iniziale del libro Umberto Pasqui - ne studiò le proprietà e provò a coltivarle: nel 1847 produsse la prima birra fatta con luppolo italiano". Prima di allora il birraio Pasqui doveva acquistare a caro prezzo il luppolo dalla Germania. Fu un successo, e sull'onda di tale produzione di luppolo la "bionda" di casa nostra iniziò la sua storia, una storia legata giustamente all'"uomo della birra", ossia a Gaetano Pasqui che operò a Forlì in tale direzione nella seconda metà dell'Ottocento. Il lavoro storico realizzato da Umberto Pasqui si basa, com'è stato giustamente evidenziato nella premessa "su documenti e ricordi di famiglia raccontati specialmente da Gisella e Adriana Pasqui, figlie di Giuseppe, proprietario della Casa del luppolo fino al 1938". Altri contributi alla ricerca, ovviamente, si sono avuti da manoscritti e soprattutto dalla consultazione del Fondo Pasqui conservato dalla Biblioteca Comunale di Forlì.

Umberto Pasqui è riuscito, in tal modo, a mettere a fuoco una vicenda davvero singolare e brillante, dando ampio spazio anche all'operato di Gaetano Pasqui come agronomo, imprenditore, inventore di attrezzi agricoli sulla base di intuizioni dettate dall'esperienza, protagonista della vita pubblica...
Un personaggio a tutto tondo, dunque, dinamico e sempre in primo piano. E bene ha fatto Umberto Pasqui, che ne è uno dei discendenti, a parlarne, a metterne in luce ogni e qualsiasi sfaccettatura, usando sempre una grafia efficace ed essenziale e quanto mai fedele alla storia.
Oggi "non sono rimaste tracce nè della fabbrica nè della casa e tantomeno delle luppolaie della Birra Gaetano Pasqui di Forlì", ma i luoghi dove si è sviluppata tale vicenda sono ancora a testimoniarne la valenza.

E perché, ipotizza e suggerisce in chiusura Umberto Pasqui non pensare alla creazione di una "via della birra"? Dati e riproduzioni iconografiche completano un libro che evidenzia ulteriormente la bravura di un autore già apprezzato per la sua attività di giornalista e di scrittore.


mercoledì 27 luglio 2011

L'uomo della birra - Cronache

Umberto Pasqui, L'uomo della birra

Cartacanta editore, 2010

Articolo pubblicato su www.cronachedibirra.it

Concludo infine con un ultimo libro, di cui i più attenti di voi avranno notato la presentazione in anteprima al passato Birra e Dintorni. In realtà non ne so moltissimo e le uniche informazioni che ho trovato sono consultabili sul sito della casa editrice, Carta Canta. Il volume si chiama L’Uomo della Birra ed è scritto da Umberto Pasqui, discendente dell’agronomo Gaetano Pasqui, protagonista dell’opera e primo in Italia a coltivare luppolo nel XIX secolo, fino ad impiegarlo per la sua birra artigianale.
Ecco come viene presentata la pubblicazione:
L’incredibile storia della più antica “bionda” di luppolo italiano. «Immagini il lettore un giovane uomo sul ciglio di un fiume, teso a raccogliere e studiare ciuffetti di erbaccia.» Siamo a metà dell’Ottocento. Per Gaetano Pasqui, giovane agronomo italiano dotato di una creatività eccezionale non si trattava però di comune erbaccia, ma di luppolo selvatico. In un periodo storico nel quale il luppolo si importava dalla Germania o addirittura dall’America e costava ben 15 lire al chilo, Gaetano Pasqui fu il primo a coltivarlo in Italia e a dare vita alla prima luppolaia nostrana. Ci fu un periodo in cui il Bel Paese sarebbe potuto diventare la patria della bionda più amata di tutti i tempi…
L’Uomo della Birra è acquistabile sul sito di Carta Canta al prezzo di 12 euro.

L'uomo della birra - Gazzette

Umberto Pasqui, L'uomo della birra



Cartacanta editore, 2010

Articolo pubblicato su Romagna Gazzette

Dopo l' Uomo delle stelle ecco L’uomo della birra. In una vicenda reale.

Umberto Pasqui, personaggio reale, storico, in carne ed ossa mette in scena la sua storia. Anche perchè L’uomo della birra’, infatti, è esistito per davvero, addirittura a due passi da casa nostra: a Forlì.

Come Grisham ha ideato ‘L’uomo della pioggia’ e Giuseppe Tornatore ‘L’uomo delle stelle’, così Umberto Pasqui ha coniato ‘L’uomo della birra’. La differenza sostanziale tra i tre 'uomini' sta nel fatto che i primi due sono frutto della fantasia dei loro autori, il terzo invece è stato un personaggio reale, storico, in carne ed ossa. ‘L’uomo della birra’, infatti, è esistito per davvero, addirittura a due passi da casa nostra: a Forlì. Si chiamava Gaetano Pasqui, era un agronomo romagnolo della metà dell’Ottocento, personaggio salito alle cronache nazionali per essere stato il primo a realizzare una birra con luppolo di produzione italiana. Erano anni di grande fervore nella produzione delle bionde nel nostro paese, con alcuni marchi destinati ad arrivare fino ai giorni nostri: la Wuhrer di Brescia (1829), la Peroni (1846), la Menabrea (1846), la Moretti (1859). E tra questi, a pieno titolo, troviamo anche la birra Pasqui (1835), che avrà il merito di trovare una via originale nel mercato di casa nostra. Una novità assoluta nel panorama della penisola, dettata da una necessità contingente: l’importazione di luppolo dalla Germania aveva raggiunto costi talmente proibitivi che si era resa necessaria una via di uscita ‘autarchica’ per ovviare al problema. L’intuizione di Pasqui è quella di coltivare il luppolo selvatico che vedeva crescere lungo le sponde del fiume Rabbi, scelta che nel 1847 vedrà l’arrivo della prima birra con luppolo Made in Italy, anche se le prime soddisfazioni imprenditoriali arriveranno tre anni dopo. L’eco di questa innovazione si fa talmente grande che nel 1856 gli viene consegnata una medaglia in occasione dell’Esposizione provinciale di Forlì, seguita poi da altri importanti riconoscimenti, a Firenze (1861) e Londra (1862). Nulla di strano visto il personaggio: agronomo col piglio dell’Archimede, inventore di attrezzi agricoli, nonché costruttore di modelli di macchine per migliorare la coltivazione dei campi. La sua è una storia tutta italiana, in una terra di Romagna laboratorio di idee politiche e sociali destinate a lasciare il segno su tutta la penisola.  Umberto Pasqui, ‘L’uomo della birra’ (Carta Canta, Forlì, pp. 96, euro 12,00). (www.filippofabbri.net)

lunedì 25 luglio 2011

Un po' l'ora notturna - Mettica

Umberto Pasqui, Un po' l'ora notturna


Recensione di Paola Mettica
(Pubblicata sul settimanale il Momento del 6 agosto 2008)

Una manciata di novelle brevi, stravaganti, nate da un'immaginazione "giovane", quattordici racconti che scorrono grazie ad uno stile suggestivo e facile che lascia spazio alla fantasia senza mai essere banale.
Storie sospese tra il magico e il fantasmagorico, il quotidiano e il surreale in cui i personaggi si staccano dal contesto di apparente normalità per entrare in uno spazio diverso, dove vivono situazioni inaspettate e sorprendenti.
Nei racconti di Pasqui i protagonisti sono personaggi dai nomi strani, bambini, adulti, ma anche oggetti, piante, perfino ninfe che non si accorgono che la dimensione del reale si confonde presto con la dimensione del sogno, pur senza perdere la naturalezza della vita che scorre.
E la lettura diventa veloce, e incuriositi, si vuole capire cosa succede, senza rendersi conto che il filo logico alla fine si è rotto, il gioco è finito, non esiste razionalità evidente.

sabato 23 luglio 2011

Gli strani casi del Principino Vanostemma - Giornalisti

Umberto Pasqui, Gli strani casi del Principino Vanostemma


Articolo pubblicato sul n.74 (aprile 2009) della rivista "Ordine Giornalisti Emilia-Romagna" a pag.79
Una storia che inizia con un omicidio misterioso, di cui sarà difficile trovare il responsabile. Ma l'enigma da risolvere è soltanto uno degli elementi centrali della vicenda. Umberto Pasqui, autore di narrativa e curatore di libri per ragazzi, con Gli strani casi del Principino Vanostemma catapulta il lettore in un giallo al contrario, nella vita di un principe che decide di trasferirsi in una cisterna, lontano dalla famiglia e dagli amici, per una sorta di scommessa con se stesso. Avrà a che fare con un fulmine che parla, una fornaia volante, una zanzara petulante e delle nutrie dispettose: personaggi che lo accompagneranno fino alla scelta finale.

Gli strani casi del principino Vanostemma - Pugiotto

Umberto Pasqui, Gli strani casi del Principino Vanostemma

Maremmi Editori - Firenze Libri, 2008


Recensione di Andrea Pugiotto
(Pubblicata sulla rivista Poeti nella Società - Anno VIII - Num. 43)

Da quando Italo Calvino, morto giusto vent'anni fa, ci narrò le strane vicende di Cosimo Piovasco, Barone di Rondò che, in rotta coi genitori, passò la vita a rampare sugli alberi, non era più capitato un libro altrettanto peregrino e surreale quanto questo testo di Pasqui, che avrebbe potuto benissimo intitolarlo Il Principe nella cisterna. Il che avrebbe forse stuzzicato vieppiù la curiosità del lettore.

Un nobiluomo ultraquarantenne, con una moglie, Clementina, e un figlio, Vologeso, soprannominato da vicini e conoscenti Il Principino, in tono dispregiativo (ma principe lo è davvero), decise di rinchiudersi in una cisterna di materiale trasparente, color arancione, per motivi non molto chiari (neppure a lui stesso), poco tempo dopo che un delitto era stato consumato in zona.
Così Robertino Consalvo Maria Vanostemma vive, per circa un mese, chiuso nella cisterna che ha fatto mettere quasi al bordo d'una strada carrozzabile, lungi alquanto dalla propria casa, ricevendo visite (spesso importune per lui) da uomini e bestie, amici e vicini, curiosi e/o preoccupati per la sua sorte. In questi incontri-scontri, più verbali che maneschi, il Principino ha modo di confrontarsi con gli altri, di ascoltare storie, di ricevere consigli (non richiesti) e di riflettere sulla propria ed altrui condizione. Finchè...

Un libro davvero curioso e accattivante, nel suo genere e che, in apparenza, non sembra seguire un percorso ben definito, un filo logico che prevede una meta cui pervenire.
Pur non muovendosi affatto (o quasi) dalla sua casa di nuova concezione, Robertino viaggia molto, attraverso le parole sue e degli altri, alla ricerca della Verità.
Una verità tutta sua, che esclude il contesto in cui vive, ma che deve però scontrarsi con la Verità oggettiva del mondo che lo circonda e che lo richiama, con lusinghe o con minacce, ai suoi doveri: quando si ha moglie e figlio non si può giocare all'eremita e gettarsi tutto alle spalle, come un fazzoletto usato!
Ma queste sono considerazioni facili da farsi. Come sempre, ogni lettore è il risultato di esperienze diverse da quelle di tutti gli altri. Pertanto, mettervi a parte delle mie congetture personali è del tutto inutile.
Fatevi voi stessi un'idea dello strano mondo del Principino Vanostemma. Ci sarà da ridere! O da piangere. O da riflettere. Chissà...

Gli strani casi del principino Vanostemma - Ricci

Umberto Pasqui, Gli strani casi del Principino Vanostemma


Maremmi Editori - Firenze Libri, 2008


Recensione di Rosanna Ricci
(Pubblicata sul quotidiano "Il Resto del Carlino" del 23 giugno 2008)

Vanostemma, che vita fantastica

SE IL LIBRO di Umberto Pasqui ‘Gli strani casi del principino Vanostemma’ fosse un quadro (come lo è quello di Enzo Pasqui riprodotto nella copertina) potremmo definirlo surreale perché intreccia, con straordinaria carica fantastica, il reale e ciò che può essere il prodotto solo di un’immaginazione che vola fra le nubi dell’inverosimile e del magico.
Partiamo dal nome del principino (che poi principe non è) di Malmissole e Roncadello: Robertino Consalvo Maria Vanostemma, nome complesso e lontano da quelli che possono far parte di una fiaba per ragazzi. E infatti non è una fiaba, ma una storia che, in certi momenti, disorienta volutamente il lettore perché originale e di sicuro fuori dagli stereotipi di un genere fantastico.
All’inizio c’è un omicidio, ma l’assassino non ha la pallida idea di essere stato lui. E già qui cominciano a farsi strada dubbi ed interrogativi. Segue poi la decisione del principino di abbandonare moglie e figlio ( anche lui dal nome strano, Vologeso) per vivere dentro una cisterna, di vetroresina collocata in un fossato/canale. A far visita allo stizzoso e insofferente abitante si alternano una fornaia che oltre a portargli i panini ha le ali e può volare verso il cielo in cui conduce un povero intristito e malconcio fulmine che non ha più la forza di salire in alto; due coniugi che cercano di riportare Robertino coi piedi per terra, ossia abbandonare stranezze degne di uno psicopatico.

NON MANCANO dialoghi e patti con nutrie che si introducono nella cisterna e chiedono cibo al principino e zanzare che con ragionamenti che non fanno una piega, spiegano l’importanza che ha per loro succhiare un po’ di sangue umano. Si tratta di una storia fra fiaba e gioco in cui, fra sogghigni, incisi e qualche fugace immagine concreta, non si sa più fino a che punto l'autore voglia provocare o divertire e in cui ogni stranezza viene puntualmente proposta come qualcosa di logico e curiosamente in bilico fra realtà e assurdo. Un teatro, dunque. Umberto Pasqui da burattinaio, manovra i fili dei suoi personaggi e fa compiere loro le più impensate ed originali acrobazie di dialoghi e di movimenti. La storia si dipana con un linguaggio asciutto, rivolto all’essenziale con espressioni ( e anche terminologia) sempre al limite fra serioso e improbabile.

http://www.ilrestodelcarlino.it/forli/2008/06/23/98940-vanostemma_vita_fantastica.shtml

Un po' l'ora notturna - Andreatta

Umberto Pasqui, Un po' l'ora notturna


Edizioni Kimerik, 2006

 

Recensione di Emanuela Andreatta
(Pubblicata sul quotidiano "La Voce di Romagna" del 28 agosto 2006, pag. 23)


Ma come sono fortunate quelle zollette di zucchero scampate alla morte per annegamento nel caffè…

“Raramente nella sua vita si era sentito infelice (ultimamente mai) ed in quei momenti lo era perché insoddisfatto: voleva risolvere il mistero, ma non sapeva come riuscirvi, o non trovava il coraggio né la forza per compiere il passo decisivo (…). Del suo stato s’accorse soltanto una tortora che gli si avvicinò mormorandogli parole di conforto”. Queste poche righe sono tratte da uno dei testi che compongono “Un po’ l’ora notturna… ” (Kimerik Edizioni), una raccolta di racconti – quattordici in tutto, quattro dei quali inediti – di Umberto Pasqui, giovane collega de “La Voce” con una laurea in giurisprudenza nel cassetto e una grande passione per la scrittura, che egli da tempo riversa, oltre che nelle pagine del giornale, in alcuni periodici letterari di cui è ricca la nostra regione. Dalla citazione emerge immediato uno dei caratteri distintivi della vena narrativa di Pasqui: l’assoluta naturalezza con cui, nelle sue storie, il mondo degli umani s’interseca – o s’intreccia, si sovrappone quasi – con quello degli animali e degli oggetti solitamente inanimati. Accade perciò che l’“io narrante” di un racconto sia uno specchio, sgomento per il fatto di non essersi mai potuto realmente vedere; oppure che una fanciulla si ritrovi kafkianamente trasformata in una succosa pesca solo perché ne ha annusato il profumo; o, ancora, che ad un’altra ragazza capiti di venir rimproverata dagli uccelli, dalle onde e dalle nuvole per aver inconsapevolmente sottratto loro il vento, perdutamente innamoratosi del suo dolce viso. Dialoghi arguti, atmosfere sognanti, sottili ironie – quando non esilaranti invenzioni, come nel caso del racconto “La dolce evasione”, in cui protagoniste sono alcune zollette di zucchero, ognuna individuata con tanto di nome classicheggiante, fortunosamente scampate alla morte per annegamento nel caffè – pervadono le pagine di Pasqui, surreali anche quando s’avventurano nei territori dell’ansia o dello spavento. Fanno venire alla mente gli universi immaginifici delle nostre infanzie, quando non sorprendeva affatto che il cielo avesse lo stesso colore di una cravattina indossata per la Prima Comunione (e che perciò il ricordo di tutto quell’azzurro rimanesse nella memoria così indelebile da valicare anche i confini del tempo se per caso quell’accessorio rispunta dal fondo di un armadio). Soprattutto, rievocano i soggetti dei tanti dipinti, magrittiani nel segno e nello spirito, realizzati dal nonno di Umberto, Enzo Pasqui, un apprezzato artista che di professione ha però fatto tutt’altro (anche l’inventore meccanico): un tratto di famiglia, insomma, accomuna gli esiti figurativi dell’uno a quelli letterari dell’altro. Con la poesia, ora ilare ora malinconica, che entrambi riescono sempre a sfiorare.

venerdì 22 luglio 2011

Un po' l'ora notturna - Argnani

Umberto Pasqui, Un po' l'ora notturna

Edizioni Kimerik, 2006


Recensione di Davide Argnani
(Pubblicata sulla rivista Confini - Num. 29 - Maggio/Agosto 2008 - pag. 61)

Umberto Pasqui è un giovane scrittore imprevedibile. Alcuni anni fa, quando scriveva questi racconti, sosteneva che "ogni giorno, verso le due del pomeriggio, si consumava la fine del mondo". E lo diceva proprio con quella dolce evasione tipica dei giovani ma già smaliziata e colma di ironia. Un'ironia che spesso riprende il comportamento umano nella sua più semplice realtà, quella del vivere quotidiano, ma vista dallo scrittore, nel senso di una metamorfosi del comportamento attraverso i tic, la sonnolenza e quell'immaginario collettivo della finzione.

Il racconto Mal comune mezzo gaudio inizia così: "Capita spesso che qualcuno, quando viaggia in treno, si dimentica qualcosa sulla carrozza" e via una bella storia strampalata ma dai toni realistici, come anche in Adelaide controvento: "Ogni giorno della nostra vita è arricchito da incontri con le tante persone che vediamo attorno a noi". Tutto vero, ma il narratore, dopo l'iniziale rappresentazione realistica se ne va per i fatti suoi, con la fantasia ricca e ben colorata che lo trasporta su altre storie, altre fantasie iperboliche, lungo il cammino di personaggi originali che non lasciano in pace il lettore, il quale è costretto a un continuo raffronto con i pensieri e le storie dei personaggi tanto bizzarri. Una scrittura e un modo di raccontare che Pasqui sa ben controllare e inventare.

Un po' l'ora notturna - Topa

Umberto Pasqui, Un po' l'ora notturna

Edizioni Kimerik, 2006


Recensione di Pacifico Topa
(Pubblicata sulla rivista Omero - Anno VII - Num. 29/30 - pag. 11)

Umberto Pasqui, con il titolo Un po' l'ora notturna ci racconta fantasiose storie che volteggiano tra l'immaginifico ed il fiabesco, usando un linguaggio limpido e vivace adeguato a chi ha dimestichezza con la nostra lingua.
Il volume, suddiviso in fantasmagorici racconti, propone favolistiche situazioni, assurde personificazioni, trame che solo una fantasia assai spigliata potevano concepire.
E' da rilevare che al fondo dei racconti c'è, più o meno palesemente, una morale idonea ai principi etici della nostra realtà.

I "quadranti" del primo racconto propongono una successione di eventi, sempre assai fiabeschi, che fanno pensare ad un cartone animato in cui i protagonisti seguono le vicende per poter trovare, alla fine, una soluzione plausibile. E' una sequela di avvenimenti tutti consequenziali che offrono spunti di interessante psicologia umana trasbordata nel fiabesco.
I capitoli che seguono hanno tutti questo clima favolistico, perché c'è trasformazione di protagonisti, capovolgimenti di situazioni imbarazzanti che si risolvono nelle maniere più imprevedibili.
Non mancano momenti di panico, scene apocalittiche come quella in cui si preconizza la distruzione del genere umano, ma in questi casi, alla fine viene trovata una via di salvezza.

Analizzando questa serie di narrazioni si ha la sensazione che l'autore voglia più divertire che problematizzare, dato che le tesi sostenute rasentano il parossismo fanciullesco.
Dalla lettura di Un po' l'ora notturna si evince, non solo la ricchezza fantasiosa dell'autore, ma anche piacevoli spunti osservativi che suscitano curiosità.
Questo lavoro lo si potrebbe definire un buon compagno di lunghe fredde serate invernali, quando, attorno al fuoco, i nostri nonni ci intrattenevano con fiabe fanciullesche.
Non posso trascurare anche quel pizzico di filosofia sciolta che s'interseca nei racconti conferendo agli stessi quell'oculato senso di ponderazione necessario per fare la differenza tra il vero e l'inventato, fra il logico e l'illogico.
Insomma, si può ben parlare di un gradevole passatempo che viene proposto senza eccessive pretese, indirizzato, non solo ai più giovani, ma che a chi, pur avendo l'età matura, vuole ripiombare nel clima affascinante della favola, non più immaginata, ma personalizzata, viva, piacevole!


Odoacre sconosciuto - Topa

Umberto Pasqui, L'Odoacre sconosciuto

Prospettiva Editrice, 2002

Recensione di Pacifico Topa
(Pubblicata sulla rivista Omero - Anno IV - Num. 20 - pag. 6)

Umberto Pasqui, con il racconto "L'Odoacre sconosciuto", ci trasporta in un mondo reale e fiabesco ad un tempo, e, con le quindici suddivisioni, narra le avventure di un appassionato navigatore: Odoacre, di una sua innamorata: Livia, di un gheppio parlante, Caracalla e di altri immaginari figuri che vivacizzano la trama.
All'origine dell'evento c'è l'astiosità del protagonista con le sorelle, raffiguranti l'eterno contrasto dell'incomprensione famigliare.
Pur di fuggire da questo clima insostenibile Odoacre s'avventura con la barca: Teodolinda, e incontra la regina Domitilla, discendente regale di una nobile casata; un casta assai variegato di personaggi che si disimpegnano alla meno peggio.

Leggendo questo racconto si veleggia tra realtà e fiaba, il tutto proposto con un linguaggio d'immediata acquisizione. Lo spirito di avventura predomina, ma è una fantasia ancorata alla realtà, gli stati d'animo sono quelli abituali, le soluzioni, spesso, sconcertano per l'originalità. Luoghi immaginari si avvicinano ad altri reali: sebbene possa parlarsi di trama inventata essa ha sempre agganci con la realtà, anche nelle problematiche dialogiche ci sono elementi che molto corrispondono ad un modo di pensare comune.

Odoacre rappresenta lo spirito avventuroso, il temerario, che non ha paura di nulla e che vuole raggiungere il suo obiettivo: fuggire dalla tediosità di due sorelle petulanti, atturno a lui Livia, l'eterna innamorata che, per il suo affetto, condivide le avventure di Odoacre, superando tutti gli ostacoli.
Altri protagonisti sono animali o figure femminili con capacità extraterrestri in grado di sovvenire alle urgenze dei protagonisti.

Inutile dire che l'invenzione ha un ruolo determinante in questo racconto, Umberto Pasqui si propone come personaggio eclettico che padroneggia linguisticamente il percorso narrativo, traendone anche sagaci osservazioni psicologiche. Non mancano spunti di moralità, specie quando le circostanze lo richiedono.
Si tratta di un romanzo che non ha certo esplosioni eclatanti, ma scorre delicatamente su una tonalità linguistica di notevole efficacia dialogica.
La descrizione fantasmagorica di luoghi inesplorati, immaginari come "L'isola delle campane", quella delle "genziane", la presenza di animali parlanti come il "lombrico", insomma ce n'è per tutti i gusti.
Odoacre e Livia riusciranno a tornare fra gli umani, sorpassando una misteriosa porta. E' un finale, tutto sommato, gradevole che conferma come realtà e la fantasia possono convivere senza nuocersi a vicenda.

Insalata di vento - Castellani

Umberto Pasqui, Insalata di vento



Edizioni Kimerik, 2005

Recensione di Fulvio Castellani
(Pubblicata sulla rivista Omero - Anno VI - Num.26 - pag. 11)

Già noto ed apprezzato scrittore, Umberto Pasqui con "Insalata di vento" si tuffa nel romanzo; e lo fa usando una grafia quanto mai personalizzata, nuova in certi approcci e senz'altro efficace.
C'è un mescolarsi di atmosfere e di interrogativi, di momenti legati alla vita e al futuro, ad intercalare una storia dalle tinte forti.
C'è, come si può dire, un piacevolissimo gioco ad intarsio dal quale fuoriesce la grande sensibilità di Umberto Pasqui ed il suo sapersi calare nei perché della realtà trasfigurandola, abbellendola e contemporaneamente mettendone a nudo emozioni, voli alti, intrecci assai spesso inattesi e solo virtualmente non legati alla quotidianità.
Il tentativo di sfuggire alla noia da parte del giovane Dante mette in circolo delle insolite situazioni e delle trasgressioni che, poi, alla fine lasciano in lui un vuoto di certezze.
La scrittura di Umberto Pasqui, come dicevamo, è suadente e vivace, riesce a catturare ed a coinvolgere proprio per quel suo sapiente modo di orchestrare il certo e l'incerto, i movimenti di scena e l'irrealtà (singolare, al riguardo, l'uscita dalle stanze sotterranee a cavallo dei prosciutti da parte di Giuturna, Virtù, Dante e Grossanuca).
Una prova, questa di Umberto Pasqui, che conferma perciò le sue doti di attento manovratore del fantastico e del reale, nonché la sua innata predisposizione a veicolare la sensazione di vivere il più possibile il sogno in veste di realtà e la realtà con i paludamenti del sogno.

L'ombra delle stelle - Carocci

Umberto Pasqui, L'ombra delle stelle


http://www.osservatorioletterario.net/pubblicazioni.htm

Recensione di Marzia Carocci
(pubblicata sulla rivista Poeti nella società, Anno IX - Num. 46/47 - pag. 16)

Umberto Pasqui si avventura, con eccezionale proprietà semantica, a proiettarci in una fiaba che altro non è che simbiosi di vita dove si estende l'eterna lotta fra il bene e il male, la forza e la debolezza, la sopraffazione e l'arrendevolezza. Una prosa dalla fantasia e la genialità di una penna che sa come convincere il lettore, che sa quali "tasti" toccare per emozionare e incuriosire, elementi d'indiscussa essenzialità in un buon racconto.
L'autore ha la capacità e la creatività di riuscire a dare origine a personaggi epici che si presentano fra le pagine e che prendono forma e movimento.

Un viaggio magico, in altri luoghi, altri pianeti, altre terre dove la speranza sarà il filo conduttore a tutto il racconto. Ogni personaggio avrà una particolarità, un carattere, delle possibilità e occasioni, una trama ben congeniata. Lottare per un mondo migliore, per sconfiggere l'ingiusto, lo sbagliato, l'errore; combattere per un ideale diventerà ragione di vita ad ogni costo.

Umberto Pasqui è pienamente riuscito a trascinare il lettore in ambienti, in epoche, in situazioni incredibili, dove però si rasenta il vissuto stesso dell'uomo che ha bisogno di sicurezza, di tranquillità e di speranza. Lotte fra guerrieri corazzati, perfide belve, mostri e innocenti, battaglie delle quali "sentiremo" il rumore delle spade, le urla, e "vedremo" le sommità di altri mondi, le nebbie dense, e alieni e pianeti e serpenti alati.
Una lotta alla quale assisteremo con la mente, della quale non ci dimenticheremo, una battaglia che ci farà respirare solo alla fine dell'avventura tutta da leggere e da "vivere".

http://www.poetinellasocieta.it/

giovedì 21 luglio 2011

Trenta racconti brevi - Diedo

Umberto Pasqui, Trenta racconti brevi

Recensione di Emilio Diedo
(Pubblicata sull'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove - Anno XV, Num. 81/82, pag. 48)

Il poco più che trentenne dottore in legge Umberto Pasqui, autore del florilegio narrativo in disamina, grazie al contenuto, trenta miniracconti, mediamente d'una pagina e mezza, sa rendersi interprete d'una letteratura assolutamente sui generis, ricca di fantasia.
Ogni racconto s'apre al lettore come il portone d'un misterioso, spesso inquietante maniero, alla mercede d'un incantesimo al quale soggiace una sorprendente realtà-irrealtà.
La tipologia narrativa di questo giovane scrittore ha già suoi specifici contemporanei ed assai illustri, predecessori, anche qui in Italia.
Il riferimento più spontaneo e diretto porta a Carlo Cassola, ai suoi romanzi Il taglio del bosco, La morale del branco, ma soprattutto L'uomo e il cane. Ancora più vicino, in quanto più attagliato, è il rapporto di Umberto Pasqui con Italo Calvino. Immediato è il ricordo ai suoi celeberrimi Racconti fantastici, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato, Il barone rampante.
Qual è il particolare di questi narratori?
E' un qualcosa che sta del tutto fuori dalla convenzione.
Neppure sono scrittori di favole, perché della fiaba ne mancano determinati presupposti: l'atemporalità e la delocalizzazione (la storia-non storia ed il luogo-non luogo). Mentre è presente, nella trama dei due autori, l'incongrua personalità degli interpreti. Anzi, è esattamente con quest'ultimo requisito che si sono giocati la loro reputazione letteraria.

Nello specifico, venendo al nostro giovane scrittore nato a Bologna e residente a Forlì, nei Trenta racconti brevi che ci ha proposto, peraltro già singolarmente pubblicati o nella Rivista o nei Quaderni della stessa editrice Olfa, anch'egli s'inserisce in un siffatto percorso. Certo, vi sono delle piccole sfumature che ne danno un'impronta un tantino diversa, ma non molto discordi dagli elementi dei due succitati autori.
Il risultato è, anche per Pasqui, comunque un narrato parossistico se non paradossale, grottesco, spesso inverosimile. Si differenzia da Cassola e Calvino, a parte la sua sfolgorante sinteticità (alcuni racconti misurano appena una ventina di righe), in primis perché va oltre quell'incongrua personalità degli interpreti che è invece la loro precipua caratteristica. Di fatto l'incongruità dei personaggi di Pasqui talvolta s'arrovescia, talora facendo sorprendere lo stesso interprete principale del racconto, dando voce ad animali, creature umano-mostruose, se non addirittura alle cose inanimate (persino al lavandino).

Quanto ai suoi fantasiosi animali, gli ubiqui Cuordarancio (un marinaio dotato di chele - modo indiretto di descrivere un granchio, ittica umanizzazione o antropomorfa mistificazione, non si sa) e Topogatto (creatura-ossimoro), nonché un "paguro poeta" assumono la parte maggiormente esistenzialistica del linguaggio di Pasqui, che dai fatti concreti, sia pur improbabili, sa dilatarsi all'astratta meditazione; esibendo una specie di metafisica della ragione. Di contro, la sorta di sirenidi (uomini-anguilla) e di uomini-chimera potrebbe allegorizzare la parte più meschina della società umana. Quella parte, viscida, malata di potere e/o d'ambizione che rovina l'armonia e la serenità della scultore espressione di bellezza dell'essere umano, al quale il Padreterno ha fatto beneficio, al cospetto della totalità degli animali.

La trama, anzitutto, naviga per un arcano spesso omissivo di giustificazioni ed approfondimenti comportamentali e/o fattuali, che, già di per sé, eleva l'interesse del lettore, ponendolo sul piano d'un potenziale co-scrittore extratesto, che vuole andare alla ricerca del contenuto mancante.
Quasi tutti i raccontini sono permeati altresì d'un altro tipo di latente, subdola, attraente misteriosità, immischiata, talvolta, ad un senso di macabra ironia, anche con presenza di cadaveri.
La morte, quando sia parte integrante del racconto, viene smitizzata, scarnificata dal suo più tetro significato, assurgendo a semplicistico evento ciclico, conclusivo dell'esistere terreno, a volte conformandosi ad utilitaristico mezzo d'altrui sussistenza. Facendosi in sostanza cibo per altre favolose creature.

I luoghi, pur mancando della necessaria qualificazione fabulistica, in quanto concretamente collocati, analogamente a certi contestuali personaggi, sono connotati in una realtà tale solo nella convizione dell'autore. Personaggi e luoghi inquadrano, nella loro combinazione personale, un limitato grottesco, appena al di fuori del quotidiano, rappresentando, semmai, un abbozzo d'utopia.

In definitiva quella "ragion pura" di kantiana menzione s'allarga a dismisura verso l'acquisizione del limite del "noumeno", integrando alla cogenza del verosimile un'insospettata quota dell'"inconoscibilità" del più probabile "fenomeno".
Pasqui conosce Kant e non può che esserne, magari anche inconsciamente, influenzato. Ma, se conosce la teoretica kantiana, egli conosce bene anche quella hegeliana, la "filosofia degli opposti". Troppo evidenti sono le antitesi dell'essere negli ossimori a tutto campo, presenti in pressoché tutti i racconti!

Le suddette premesse, che permeano la struttura concettuale della parola di Pasqui, sono, per giunta, sostenute da un'ottima capacità d'espressione e, direi, da una notevole, quotata, portata d'un proprio, caratterizzante, stilema.
Sono rari i momenti in cui si possa rilevare calo di tenuta.
Viceversa, sono moltissimi i passi in cui la sottigliezza e l'eloquenza dell'adeguata, opportuna parola danno ulteriore contributo d'interesse ai relativi brani.
http://www.osservatorioletterario.net/
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=521412

Trenta racconti brevi - Rota

Umberto Pasqui, Trenta racconti brevi

Recensione di Sara Rota
(Pubblicata sull'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove - Anno XV, Num. 79/80, pag. 72)
 
Attraverso questo libro l'autore Umberto Pasqui ci porta a vagare nel suo mondo fatto di brani emozionanti più o meno brevi.
La maggior parte dei racconti ha uno stampo surreale, quasi magico; il linguaggio che li caratterizza è semplice, con un qualcosa che sa di antico, quasi l'autore appartenesse ad un'epoca molto più antecedente alla nostra.
Leggendo "Trenta racconti brevi" non si riesce a pensare ad un qualcosa di già letto o scritto, talmente tutto è scritto con semplice originalità.
"Trenta racconti brevi": un libro che non si sofferma sulle realtà degli oggetti protagonisti, ma sull'immaginazione che essi evocano.
"Trenta racconti brevi": un libro che colpisce per la sua originale bellezza e descrizione della quotidianità.

Trenta racconti brevi - Pederiali

Umberto Pasqui, Trenta racconti brevi

Commento di Giuseppe Pederiali
(18 settembre 2010)


Caro Pasqui, ho letto i racconti e mi sono piaciuti. Anche se alcuni non sono definibili dei veri e propri racconti, semmai delle considerazioni, delle annotazioni, delle pagine più saggistiche o di diario che delle vere e proprie narrazioni. Interessante cimentarsi con il racconto breve, poco frequentato nel nostro paese con qualche eccezione, vedi la bellissima raccolta "Navi in bottiglia" di Gabriele Romagnoli. Purtroppo, nonostante il nostro sia il paese di Boccaccio, Pirandello e Soldati, gli editori non amano i racconti: li considerano poco commerciali. Figuriamoci i racconti brevissimi! Per questo motivo il mio "in bocca al lupo" vale il doppio. Tanti cordiali saluti,
Giuseppe Pederiali
http://www.giuseppepederiali.it/