Umberto Pasqui,
Trenta racconti brevi
Recensione di Emilio Diedo
(Pubblicata sull'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove - Anno XV, Num. 81/82, pag. 48)
Il poco più che trentenne dottore in legge Umberto Pasqui, autore del florilegio narrativo in disamina, grazie al contenuto, trenta miniracconti, mediamente d'una pagina e mezza, sa rendersi interprete d'una letteratura assolutamente sui generis, ricca di fantasia.
Ogni racconto s'apre al lettore come il portone d'un misterioso, spesso inquietante maniero, alla mercede d'un incantesimo al quale soggiace una sorprendente realtà-irrealtà.
La tipologia narrativa di questo giovane scrittore ha già suoi specifici contemporanei ed assai illustri, predecessori, anche qui in Italia.
Il riferimento più spontaneo e diretto porta a Carlo Cassola, ai suoi romanzi
Il taglio del bosco,
La morale del branco, ma soprattutto
L'uomo e il cane. Ancora più vicino, in quanto più attagliato, è il rapporto di Umberto Pasqui con Italo Calvino. Immediato è il ricordo ai suoi celeberrimi
Racconti fantastici,
Il cavaliere inesistente,
Il visconte dimezzato,
Il barone rampante.
Qual è il particolare di questi narratori?
E' un qualcosa che sta del tutto fuori dalla convenzione.
Neppure sono scrittori di favole, perché della fiaba ne mancano determinati presupposti: l'
atemporalità e la
delocalizzazione (la storia-non storia ed il luogo-non luogo). Mentre è presente, nella trama dei due autori, l'
incongrua personalità degli interpreti. Anzi, è esattamente con quest'ultimo requisito che si sono giocati la loro reputazione letteraria.
Nello specifico, venendo al nostro giovane scrittore nato a Bologna e residente a Forlì, nei
Trenta racconti brevi che ci ha proposto, peraltro già singolarmente pubblicati o nella Rivista o nei Quaderni della stessa editrice Olfa, anch'egli s'inserisce in un siffatto percorso. Certo, vi sono delle piccole sfumature che ne danno un'impronta un tantino diversa, ma non molto discordi dagli elementi dei due succitati autori.
Il risultato è, anche per Pasqui, comunque un narrato parossistico se non paradossale, grottesco, spesso inverosimile. Si differenzia da Cassola e Calvino, a parte la sua sfolgorante sinteticità (alcuni racconti misurano appena una ventina di righe), in primis perché va oltre quell'
incongrua personalità degli interpreti che è invece la loro precipua caratteristica. Di fatto l'
incongruità dei personaggi di Pasqui talvolta s'arrovescia, talora facendo sorprendere lo stesso interprete principale del racconto, dando voce ad animali, creature umano-mostruose, se non addirittura alle cose inanimate (persino al lavandino).
Quanto ai suoi fantasiosi animali, gli ubiqui Cuordarancio (un marinaio dotato di chele - modo indiretto di descrivere un granchio, ittica umanizzazione o antropomorfa mistificazione, non si sa) e Topogatto (creatura-ossimoro), nonché un "paguro poeta" assumono la parte maggiormente esistenzialistica del linguaggio di Pasqui, che dai fatti concreti, sia pur improbabili, sa dilatarsi all'astratta meditazione; esibendo una specie di metafisica della ragione. Di contro, la sorta di sirenidi (uomini-anguilla) e di uomini-chimera potrebbe allegorizzare la parte più meschina della società umana. Quella parte, viscida, malata di potere e/o d'ambizione che rovina l'armonia e la serenità della scultore espressione di bellezza dell'essere umano, al quale il Padreterno ha fatto beneficio, al cospetto della totalità degli animali.
La trama, anzitutto, naviga per un arcano spesso omissivo di giustificazioni ed approfondimenti comportamentali e/o fattuali, che, già di per sé, eleva l'interesse del lettore, ponendolo sul piano d'un potenziale co-scrittore extratesto, che vuole andare alla ricerca del contenuto mancante.
Quasi tutti i raccontini sono permeati altresì d'un altro tipo di latente, subdola, attraente misteriosità, immischiata, talvolta, ad un senso di macabra ironia, anche con presenza di cadaveri.
La morte, quando sia parte integrante del racconto, viene smitizzata, scarnificata dal suo più tetro significato, assurgendo a semplicistico evento ciclico, conclusivo dell'esistere terreno, a volte conformandosi ad utilitaristico mezzo d'altrui sussistenza. Facendosi in sostanza cibo per altre favolose creature.
I luoghi, pur mancando della necessaria qualificazione fabulistica, in quanto concretamente collocati, analogamente a certi contestuali personaggi, sono connotati in una realtà tale solo nella convizione dell'autore. Personaggi e luoghi inquadrano, nella loro combinazione personale, un limitato grottesco, appena al di fuori del quotidiano, rappresentando, semmai, un abbozzo d'utopia.
In definitiva quella "ragion pura" di kantiana menzione s'allarga a dismisura verso l'acquisizione del limite del "noumeno", integrando alla cogenza del verosimile un'insospettata quota dell'"inconoscibilità" del più probabile "fenomeno".
Pasqui conosce Kant e non può che esserne, magari anche inconsciamente, influenzato. Ma, se conosce la teoretica kantiana, egli conosce bene anche quella hegeliana, la "filosofia degli opposti". Troppo evidenti sono le antitesi dell'essere negli ossimori a tutto campo, presenti in pressoché tutti i racconti!
Le suddette premesse, che permeano la struttura concettuale della parola di Pasqui, sono, per giunta, sostenute da un'ottima capacità d'espressione e, direi, da una notevole, quotata, portata d'un proprio, caratterizzante, stilema.
Sono rari i momenti in cui si possa rilevare calo di tenuta.
Viceversa, sono moltissimi i passi in cui la sottigliezza e l'eloquenza dell'adeguata, opportuna parola danno ulteriore contributo d'interesse ai relativi brani.
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