sabato 14 gennaio 2012

L'uomo della birra - Giorgetti

Personaggi romagnoli a cura di Gilberto Giorgetti
UNA DELLE PRIME BIRRE ITALIANE È NATA IN ROMAGNA CON GAETANO PASQUI

da
E’ RUMAGNÔL Periodico telematico di informazione e cultura romagnola
Anno II - N° 11 – Novembre 2010 Pag. 11

Si ritiene che i Pasqui da Città di Castello si siano trasferiti a Forlì per motivi politici.
Pur non conoscendo i veri motivi del trasferimento si presume che i Pasqui fossero dei proprietari terrieri e avessero preferito venire nella napoleonica Romagna, Forlì in particolare, dove poterono “coltivare” i loro interessi per l’agricoltura e per la politica.
Era il 1847 quando Gaetano Pasqui iniziò la coltivazione del luppolo e poi la produzione della “Birra Pasqui” alla “Bertarina” di Vecchiazzano.
Oggi la località dove era la villa Pasqui, con annessa casa colonica, ha nome Ca’ Ossi.
A quel tempo il borgo era formato da un piccolo gruppo di case lungo la riva destra del canale di Ravaldino, per la strada che conduce a S. Martino in Strada. Non c’era neanche la chiesa.
Infatti gli abitanti di Ca’Ossi dovevano assistere alle funzioni della chiesa di S. Martino in Strada.
Quando i Pasqui vennero ad abitare a Forlì la situazione economica e il grado di istruzione erano fortemente precari: la gente era povera, obbligata a lavorare in cambio di pochi soldi sotto padroni e fattori che spesso si dimostrarono incapaci di far fruttare appieno il loro terreno.
I governanti erano spesso corrotti e a rendere ancor più incerto il futuro delle famiglie ci si misero pure le rivoluzioni del 1831 -1843 - 1845 - 1848/49. In quegli anni, dettato anche dal malcontento popolare, il fenomeno del brigantaggio vide un forte incremento. Così Stefano Pelloni detto il “Passatore”, da “mite” traghettatore del fiume Lamone si tramutò in un fuorilegge che, inforcate le armi, dal 1849 al 1851 terrorizzò le Legazioni papaline della Romagna, cioè le province di Bologna, Forlì, Ravenna e Ferrara, sconfinando all'occasione anche nel Granducato di Toscana. In questo clima socio-politico Gaetano Pasqui in un suo fondo alla “Bertarina” si mise a coltivare una trentina di piante di luppolo, ma i primi risultati li vide solo nel 1850; lo stesso anno in cui fu smantellato il ponte romano detto dei “Morattini” per ampliare l’attuale corso Giuseppe Garibaldi. Il ponte, per le sue modeste dimensioni, era diventato insufficiente al traffico, in una città che già aspirava a diventare capoluogo di provincia. Una prima testimonianza della “Birra Pasqui” è documentata da un fascicoletto del 1861, composto da quindici pagine scritte e cinque illustrate. Mentre il libretto usciva dalla stampa, a pochi metri dal podere e dalla casa Pasqui, sul posto dove l’alluvione del 1842 fece rovinare l’antico ponte del 1451 e, come descrive lo storico Timoleone Zampa, “fu posta una gran trave attraverso al fiume con un parapetto di legno per comodo dei viandanti, per non dovere passare il fiume a guado”, l’11 luglio dello stesso anno si inaugurava il nuovo ponte progettato dall’ing. Giulio Zambianchi, lo stesso ingegnere che aveva rinnovato il Duomo a Forlì.
Oltre alle regioni del nord, tra le prime ad intraprendere la produzione della birra in modo semi-artigianale c’è anche la Romagna. In effetti, le prime industrie nazionali risalgono alla
Wührer di Brescia (1829), alla Peroni di Vigevano (1846), poi trasferita a Roma e alla Moretti di Udine (1859).
Nella prima “Monografia Statistica, Economica, Amministrativa della Provincia di Forlì” del 1866 è scritto quanto segue: “Il sig. Gaetano Pasqui ha introdotto la fabbricazione della birra ed ha iniziato la coltivazione del luppolo. L’attività si svolge essenzialmente per sei mesi all’anno ed occupa ordinariamente due operai. Nel 1863 sono state smerciate 35.000 bottiglie, anche fuori della Provincia”.
Con la produzione della birra, Pasqui raggiunse una certo agio economico ed una certa notorietà, tanto che nel pomeriggio del 16 aprile 1871 Gaetano organizzò un incontro presso la sua villa, al quale parteciparono alcuni leaders repubblicani e circa 700 invitati. L’incontro si svolse sul prato dove si banchettò a salame, agnello e paste, tutto accompagnato da un ottimo Sangiovese.
La birra prodotta da Gaetano Pasqui Nel 1847, oltre a Gaetano con la moglie Geltrude Silvagni e i figli Livia e Tito, di un anno appena, viveva nella stessa casa anche il fratello Giovanni, con la moglie Paola Vitali e i figli Eugenia, Domenico e Vittoria. Fu allora che Gaetano, senz’altro studio che l’osservazione e la curiosità, inventò la prima birra prodotta con luppolo italiano.
Era già un produttore di birra, ma il costo del luppolo importato dalla Germania era diventato proibitivo: e allora pensò di introdurne la coltivazione in Italia. Aveva notato, infatti, che qua e là qualche piantina di luppolo selvatico cresceva con vigore anche nei nostri campi. E allora provò a raccoglierle, a studiare “i precetti degli scrittori su tale argomento”. Solo nel 1850 ebbe le prime soddisfazioni e il luppolaio crebbe in modo esponenziale: fino a stipare un ettaro del suo fondo con oltre tremila piante.
Nel 1856 conseguì una medaglia in occasione dell’Esposizione provinciale di Forlì, e altri riconoscimenti a Firenze (1861) e Londra (1862) fecero uscire allo scoperto il lavoro dell’agronomo. Nella cittadina alsaziana di Haguenau, dal 10 al 20 ottobre 1867 si svolse un’Esposizione internazionale dedicata a “houblons, bières & matériel de brasserie”. Nel
catalogo degli oggetti esposti, risulta che Gaetano Pasqui era l’unico espositore italiano presente. “Ottenuti tali risultati avrebbe voluto il Pasqui aumentare i Luppoli, ma il terreno da esso posseduto è di limitata estensione, e non del tutto adattato a
tale coltura per essere costeggiante ad un fiume…” .
Pertanto, tramite la rivista “Incoraggiamento” di Bologna e nelle pagine de “La Nazione” di Firenze, scrisse un avviso col quale vendette tutte le piante di luppolo che fino ad allora aveva coltivato a casa sua:
“Gaetano Pasqui coltivatore di Luppolo e fabbricatore di Birra in
Forlì, desideroso che venga propagata la
coltivazione della predetta pianta fra noi
italiani,(…) pone in vendita i polloni a L.5 il
cento dei quali potrà disporne circa 4000… A
facilitare poi l’impianto di Luppolaie, il Pasqui
stesso offre ai nuovi coltivatori di loro
somministrare le pratiche cognizioni in
proposito, ed anche l’opera sua onde assicurare
la promessa riuscita…”.
Con la fine della coltivazione del luppolo in casa, la Birra Pasqui, che al 1861 era stata
smerciata in 35 mila bottiglie, arresta la sua produzione, benché fino a tutti gli anni ’70 dell’800 fosse ancora venduta, in limitate quantità, al Caffè gestito da Domenico Pasqui, figlio di Giovanni, nel Rialto piazza. In tempi in cui la vite in pianura sembrava destinata a scarsa fortuna a causa di un insetto, la filossera, che attaccava le piante uccidendole, forse la Romagna poteva diventare la terra della birra e le luppolaie potevano essere familiari come i vigneti oggi.
Ma così non fu. Curiosamente, il figlio Tito fu un grande sostenitore del vino:
contribuì a sconfiggere la filossera, e a promuovere l’enologia romagnola e italiana in diversi convegni europei.
Oltre al luppolaio di casa, Gaetano ne aveva impiantato un altro a scopo di studio, nel 1865 a Villa Pianta, presso il podere di seimila metri quadrati della Stazione agraria di Forlì, di cui era assistente agronomo. Questa luppolaia fu smantellata nel 1870, per far posto a una piantagione di barbabietole. In una relazione inviata al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio del 1871, Gaetano Pasqui scriveva:
“In questo terreno negli anni precedenti si coltivò il Luppolo,
pianta aromatica importante della quale da molti anni primo
introdussi nell'Emilia la coltura, che ottenne premio distinto alla
Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 e alla Mostra
universale di Londra del 1862, ove il mio luppolo fu trovato ricco
di luppolina come quello di Germania, del quale ora si fa tanta
importazione in Italia, mentre dovremmo esonerarci da questo
tributo che paghiamo agli stranieri, perocché il luppolo prospero
vegeta e dà ottimi ricolti anche nella nostra regione”.
La Birra Pasqui non sopravviverà a Gaetano, morto nel 1879, ma in tempi recentissimi, nel terreno circostante la vecchia “fabbrica”, erano ancora visibili i vasconi circolari per far fermentare il luppolo.
Gaetano Pasqui fu anche modellista e inventore di strumenti per l’agricoltura, come il polivomero-copriseme, il carretto Pasqui, o gli attrezzi specifici per le luppolaie: ovvero il levapertiche, il piantapertiche e lo zappetto-ronca.
Infatti “si studiò di rendere gli istrumenti rurali che d’ogni parte s’importavano, vantaggiosi alla agricoltura regionale. Non gli capitò innanzi apparato ch’ei non esaminasse diligentemente e non correggesse e migliorasse ove se ne manifestasse l’opportunità. Così modificò l’aratro Zelaschi, trasformando la bure, rialzando l’orecchio, aggiungendo il carretto; come pure portò cambiamenti in altri aratri e strumenti che furono giudicati utilissimi dai più esperti agricoltori. Si resero con ciò tali istrumenti adatti alle condizioni peculiari delle nostre coltivazioni e fu a ragione che le macchine del Deposito Governativo in Forlì venissero maggiormente encomiate e richieste. Nel 1867 (scrive il prof. Madalozzo) vedendo come l’uso di solcare il campo a porche larghe e male allineate, assai diminuisse il prodotto e assai di sementa sciupasse, inventò un attrezzo di cui si occuparono i più rinomati fra gli agronomi d’Italia e a cui fu dato il nome di
Coprisemi inquadernatore dal Botter, e di Polivomero copriseme dal Ricca-Rosellini, nome quest’ultimo che gli restò, aggiungendovisi quello del sagace inventore. Non ne farò la descrizione, nota ai più; questo vo’ dire però che nella mostra universale di Parigi del 1867 le due cose più ammirate, anzi le sole ammirate fra gli arnesi agrari, erano il Polivomero Pasqui e il ravagliatore Certani”.
L’infaticabile Gaetano si spense il 19 giugno 1879 all’età di 72 anni: è attualmente sepolto nella tomba di famiglia al cimitero monumentale di Forlì.
Il prof. Maddalozzo, chiamato a recitare l’orazione funebre, così concluse: “Fu integerrimo di carattere, semplice di costumi, affabile con tutti, pieno d’amore per la famiglia, per i parenti, per gli amici. Egli ha lavorato, riposi. Ma non riposate voi, o giovani, a cui si dischiude balda e promettente la vita; fate tacere nell’animo le inquiete passioni, e raccoglietevi nella santa operosità del lavoro, perché da voi molto aspetta la Patria. Né vi scoraggino gli ostacoli o la sfiducia nelle vostre forze... Ricompensate la sua virtù imitandolo, e nell’estremo addio che gli diamo ringraziamolo per la patria e per la scienza, a cui nobilmente ha servito”.

mercoledì 11 gennaio 2012

L'uomo della birra - Fabbri

Dopo l' Uomo delle stelle ecco L’uomo della birra. In una vicenda reale.

Umberto Pasqui, personaggio reale, storico, in carne ed ossa mette in scena la sua storia. Anche perchè L’uomo della birra’, infatti, è esistito per davvero, addirittura a due passi da casa nostra: a Forlì.

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LETTURE& L'UOMO DELLA BIRRA.. Come Grisham ha ideato ‘L’uomo della pioggia’ e Giuseppe Tornatore ‘L’uomo delle stelle’, così Umberto Pasqui ha coniato ‘L’uomo della birra’. La differenza sostanziale tra i tre 'uomini' sta nel fatto che i primi due sono frutto della fantasia dei loro autori, il terzo invece è stato un personaggio reale, storico, in carne ed ossa. ‘L’uomo della birra’, infatti, è esistito per davvero, addirittura a due passi da casa nostra: a Forlì. Si chiamava Gaetano Pasqui, era un agronomo romagnolo della metà dell’Ottocento, personaggio salito alle cronache nazionali per essere stato il primo a realizzare una birra con luppolo di produzione italiana. Erano anni di grande fervore nella produzione delle bionde nel nostro paese, con alcuni marchi destinati ad arrivare fino ai giorni nostri: la Wuhrer di Brescia (1829), la Peroni (1846), la Menabrea (1846), la Moretti (1859). E tra questi, a pieno titolo, troviamo anche la birra Pasqui (1835), che avrà il merito di trovare una via originale nel mercato di casa nostra. Una novità assoluta nel panorama della penisola, dettata da una necessità contingente: l’importazione di luppolo dalla Germania aveva raggiunto costi talmente proibitivi che si era resa necessaria una via di uscita ‘autarchica’ per ovviare al problema. L’intuizione di Pasqui è quella di coltivare il luppolo selvatico che vedeva crescere lungo le sponde del fiume Rabbi, scelta che nel 1847 vedrà l’arrivo della prima birra con luppolo Made in Italy, anche se le prime soddisfazioni imprenditoriali arriveranno tre anni dopo. L’eco di questa innovazione si fa talmente grande che nel 1856 gli viene consegnata una medaglia in occasione dell’Esposizione provinciale di Forlì, seguita poi da altri importanti riconoscimenti, a Firenze (1861) e Londra (1862). Nulla di strano visto il personaggio: agronomo col piglio dell’Archimede, inventore di attrezzi agricoli, nonché costruttore di modelli di macchine per migliorare la coltivazione dei campi. La sua è una storia tutta italiana, in una terra di Romagna laboratorio di idee politiche e sociali destinate a lasciare il segno su tutta la penisola.  Umberto Pasqui, ‘L’uomo della birra’ (Carta Canta, Forlì, pp. 96, euro 12,00). (www.filippofabbri.net)

sabato 7 gennaio 2012

Piccoli contributi alla storiografia locale

Nel volume "Sobborgo Mazzini" (L'Almanacco Editore), pubblicato nel dicembre 2011 c'è un mio piccolo contributo alle pagine 21 e 22. Si tratta di una scheda biografica per ricordare Renzo Zattoni (1924-2009), artista dello sbalzo e amico di mio nonno Enzo. Il testo è inserito nella sezione "I personaggi del borgo", a cura di Gilberto Giorgetti. Per la stessa serie di volumetti colorati pubblicati annualmente da L'Almanacco per riscoprire i rioni forlivesi, avevo collaborato nel 2009 ("Borgo Cotogni") con un ricordo di mio nonno Enzo, e nel 2010 ("Il Campo dell'Abate") con un breve testo su Pietro Benzoni, l'antiquario noto come "Piretta d' Sufà".

sabato 10 dicembre 2011

In due recenti antologie

ALTRO NON FACCIO Per onorare l'esperienza lunga ormai quindici anni dell'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove (cui mi pregio di collaborare assiduamente da un decennio), Melinda Tamas-Tarr, anima di questa realtà culturale, ha pensato di pubblicare una ricca antologia. Anche il mio nome compare tra gli autori. Nella sezione "Contemporanei italiani, ungheresi e d'altrove" sono presente con due racconti e un saggio. Pasqui Umberto: Incastri, La casa delle voci (Luci, Inquieto vivere, La doppia coppia; Haydn, oh Haydn; Ombre); Lo strano caso delle anatre affagiolate (saggio) 392 Inoltre, sono presente nella sezione "Raccolta delle opere in lingua ungherese" con tre raccontini tradotti in ungherese da Melinda Tamas-Tarr. Da notare chi c'è prima e dopo il mio nome... B. Tamás-Tarr Melinda: Válogatott műfordítások (Dante Alighieri, Assisi Szt. Ferenc, B. Cellini, M. Buonarroti, G. Gozzano, J.M. De Heredía, J. M. Heredía, Ismeretlen Szerző, G. Leopardi, U. Pasqui, F. Petrarca, E. Pietrangeli, Cs. Rubino, F. Sorrentino, Melinda Tamás-Tarr, P. Verlaine) 554 Per saperne di più: http://www.osservatorioletterario.net/copgiubil.pdf http://www.osservatorioletterario.net/ *** 256K Il mio nome compare anche tra i 256 autori selezionati per l'antologia "256k" pubblicata da BraviAutori e curata da Massimo Baglione e Massimo Fabrizi. Nonostante che non sia un fanatico del "retrocomputing" (come si legge nel bando) nè tantomeno apprezzi anglofonie e gergo informatico, mi sono cimentato in questo tema. Il mio racconto brevissimo (è il numero 117) s'intitola "Rimani qui". Come richiesto, misura circa mille battute. Per chi fosse curioso, l'antologia è disponibile come libro cartaceo: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=672014 Oppure come libro elettronico: http://www.lulu.com/product/ebook/256k---256-racconti-da-1024-karatteri/18724652

giovedì 1 dicembre 2011

Adelaide Controvento

Non solo birra...Pubblico qui questo mio racconto già pubblicato nella mia raccolta "Un po' l'ora notturna" (Kimerik, 2006) ora fuori catalogo.
http://http//birrapasqui.blogspot.com/p/un-po-lora-notturna.html

1
Ogni giorno della nostra vita è arricchito da incontri con le tante persone che vediamo attorno a noi. E’ vero, vediamo tante persone, ma spesso a sera non ne ricordiamo i lineamenti; anche se ci sforziamo ogni tentativo è vano. Se invece fermiamo uno che non conosciamo e parliamo con lui o lo aiutiamo, o da lui siamo aiutati, il suo volto per qualche tempo rimarrà impresso nella nostra memoria. Adelaide amava incontrare diverse persone, parlare con loro di ciò che a loro faceva piacere, metterle a proprio agio o rendersi utile per qualsiasi bisogno altrui. Ogni volto umano per lei era un mistero di curiosità, uno scrigno di segreti: nessuno le era indifferente, ciascuno era degno d’attenzione, d’esser ascoltato, d’essere scoperto. Così Adelaide dal viso di cerbiatto era amata e benvoluta da tutti, si rivelava carina, gentile, disponibile, attenta, e la sua compagnia era alquanto ricercata. Non per questo, e nemmeno per il suo aspetto fisico attraente e delicato, si era mai montata la testa, anzi, la sua umiltà e la sua modestia sconcertavano chi le stava vicino. Aveva qualche difetto, è vero, ma così insignificante rispetto alle sue virtù da ritenersi irrilevante.
2
Adelaide amava passeggiare nel molo, e vedere le onde incresparsi, ascoltare il gorgoglio dei motori delle barche, sentire l’odore di nafta e di pesce intridere l’aria salmastra e lasciarsi accarezzare dal vento marino. Spesso si sedeva su una bitta e chiudeva gli occhi, immaginando mondi lontani. Un pomeriggio, di martedì, era sul molo, seduta su una panchina erosa dalla salsedine, aveva il vento che le soffiava in faccia; era buono, salato, tiepido, pulito. Si rialzò per tornare a casa e notò che, anche se si stava dirigendo nella direzione opposta, il vento, quello stesso vento, le soffiava sempre in faccia. Era stupita, ma non più di tanto. S’insospettì soltanto quando, una volta entrata in casa, avvertì la medesima sensazione.
- Il vento in casa? E da dove soffia? Tutte le finestre sono chiuse… - si chiedeva la ragazza.
Piuttosto inquieta uscì per parlarne con qualcuno, ma a fatica riusciva a tenere gli occhi aperti perché il vento soffiava molto forte, a raffiche. A malapena poteva ascoltare le voci, tanto che l’udito era compromesso dal continuo fruscìo rumoroso ed assordante. Aveva notato che solo a lei stava accadendo questo strano fatto, che solo lei era sempre e perennemente controvento.
- Non può essere una coincidenza, sarà una malattia rara – pensava tra sé.
Puntò lo sguardo sul mare piatto, si volse a scatti nelle quattro direzioni ma era sempre controvento, poi, rassegnata, abbassò lo sguardo a terra, e sempre il vento le accarezzava le gote lentigginose. Era preoccupata la giovane Adelaide, seriamente in pensiero per la propria salute, sia fisica che mentale: dentro lei cresceva il fastidioso sospetto di essere vittima di un malocchio, o di una malattia della mente. L’idea della fattura le era venuta perché sapeva che lei, carina e benvoluta, era fonte d’invidia per qualche coetanea rancorosa, ma credeva poco nella magia. Stava diventando pazza? Forse sì, a suo giudizio, perché tale era l’unica spiegazione verosimile alla sua condizione. Forse erano allucinazioni le sue sensazioni.
3
Nel culmine della sua preoccupazione avvertì una voce strozzata che la chiamava:
- Adelaide… Adelaide…
S’accorse che la voce proveniva dal mare piatto del molo, e lo fissò.
- Adelaide… Adelaide…
La voce proveniva da un’alga. Un’alga? La ragazza era sempre più convinta della sua follia e, quasi divertita, volle ascoltarla.
- Adelaide… Adelaide… parlo in nome delle onde del mare, esse ti mandano a dire che sono gelose di te.
- Gelose? – reagì con tenue riso – E che cosa avrei fatto?
- Il loro principe tu hai rapito, ed ora tristi si spengono nella mestizia.
- Misericordia! – sempre più perplessa – E tutto ciò sarebbe accaduto per colpa mia?
- Adelaide… Adelaide…
Un gommone passò sopra l’alga e la fece tacere.
Qualche curioso sorrideva avendo visto la ragazza parlare col vegetale marino. Buona parte del resto della giornata fu da lei trascorsa a pensare e ripensare alle parole strozzate dell’alga. Che cosa voleva dire? Chi è il principe? E perché le onde sono di lei gelose? Sulla via di casa un pettirosso, tutto arrabbiato, le beccò i piedi soltanto difesi da sandali e la redarguì con veemenza:
- Attenta, perché tu, con quei tuoi sorrisini, hai combinato un bel guaio!
- Dimmi che cosa ti ho fatto…
- L’effetto è che volo come un pollo menomato, non più come un aggraziato pettirosso, la causa sei tu.
- Sono davvero dispiaciuta, cosa posso fare per te?
- Per me? Ah, bella mia, non solo “per me”, hai ridotto come me tutti i volatili della zona!
Il pettirosso saltellò via imprecando contro di lei. Adelaide era sempre più curiosa di sapere qual era il suo ruolo nella vicenda e perché le stavano capitando cose tanto strane. Intanto il vento le soffiava sempre in faccia.
- Tu, bambolina dagli occhi di cerva – tuonò una voce contraltile proveniente dall’alto.
Era una nuvola, anch’essa in collera con la ragazza.
- E a te cosa avrei fatto?
- Non fare la gnorri, bipede flavichiomato, sai bene che se mi manca l’accompagnatore è solo per colpa tua.
- Non so davvero che dire… se solo sapessi… se solo ti potessi aiutare…
- Ogni mia simile, pulzella scriteriata, è ora sola a causa tua, e non ha nessuno che le faccia scoprire nuove terre e nuovi cieli.
Adelaide era sempre più mortificata, non osava più rispondere ma si lasciava insultare dalla nuvola borbottante.
- Mi fai pena e disgusto, frivola callipigia, perché tu sai tutto, hai la risposta davanti agli occhi e sei complice del misfatto.
La nuvola, ciò detto, tuonò e si dissolse.
4
In quel momento nella testa di Adelaide passava ogni sorta di pensiero. Era curiosa, e allo stesso tempo angosciata; a tratti riteneva divertente parlare a cose o ad animali, ma a volte pensava che ciò fosse sconcertante e ben presto le tornava in mente l’idea di aver contratto una malattia sconosciuta. Aveva appena dialogato con un’alga, un pettirosso e una nuvola, e tutti questi l’accusavano per qualcosa di cui non sapeva nulla. Decise che era meglio non parlarne con nessuno, altrimenti chissà cosa avrebbe suscitato, ma sentiva altresì che affrontare da sola questo grave, poteva diventare di difficile sopportazione. Avrebbe voluto sfogarsi, ma non osava. Pur avendo tanti amici in quei momenti si sentiva tremendamente sola. Detestava la solitudine, ma riteneva che nessuno potesse darle un consiglio né esserle d’aiuto. Tornò sul molo, su quella panchina erosa dalla salsedine per capire qualcosa: sempre e ancora il vento le soffiava in faccia.
5
Chiuse gli occhi ascoltando i rumori del molo finquando sentì una voce che chiamava il suo nome:
- Adelaide… Adelaide…
- Dimmi, alga – rispose senza aprire gli occhi.
- Alga? Io non sono un’alga! Guarda bene.
La ragazza aveva davanti a sé, per terra, ai suoi piedi, un aeroplanino di carta: era possibile che fosse lui a parlare?
- Sì, sono io… - disse alzando la voce.
- Di che cosa hai bisogno? – domandò Adelaide con aria di sufficienza; ormai era abituata a tali stranezze.
- Ti rendi conto che sono inservibile?
- Mi dispiace.
- Solo questo sai dire: “mi dispiace”?
- Non hai capito ancora niente? – borbottò un’altra voce da non lontano.
Era un aquilone steso a terra col filo attorcigliato su se stesso.
- Se non mi spiegate… - riprese a parlare la ragazza, sempre più svogliata.
- E cosa c’è da spiegare? – protestarono i due oggetti.
- Spiegatemi dove ho sbagliato!
- Ah, be… - titubò l’aquilone – evidentemente tu gli piaci.
- Sì, sì – aggiunse l’aeroplanino di carta – tu non hai voluto tutto questo, ma l’hai causato.
- Se non mi dite come stanno le cose – minacciò la ragazza ormai insofferente – vi prendo e vi butto nel cestino!
- Ehi, signorinella – rispose seccato l’aquilone e per nulla impaurito – sarà ora che usi la tua bella testolina bionda, oppure hai capito e ti stai prendendo beffe di noi, vediamo bene che non disdegni la sua compagnia.
- Sua? Di chi?
- Di chi ti sta corteggiando, e tu di certo non rifiuti.
La testolina bionda della docile Adelaide cominciò a girare perché non riusciva più a trovare il senso di ciò che stava accadendo.
- Non hai capito, stellina? – chiese ancora, con dolcezza, l’aeroplanino di carta.
- No…
- Allora è giunto il tempo che ti spieghiamo le cose per bene.
Finale
Adelaide non si era resa conto che quel giorno in cui si era seduta sulla panchina del molo aveva incontrato il vento, e il vento con lei si era incontrata. Esso l’accarezzò sulla guancia, e poi se ne innamorò. Il vento, per natura, ha un carattere capriccioso e volubile, ma talora può essere anche costante, tanto rimaneva fedele ad Adelaide che nel mondo non soffiava più, se non per baciare ed accarezzare la ragazza.

Umberto Pasqui

mercoledì 30 novembre 2011

Così mi vedete

Non solo birra...
Pubblico qui questo mio racconto già pubblicato nella mia raccolta "Un po' l'ora notturna" (Kimerik, 2006) ora fuori catalogo.
http://http//birrapasqui.blogspot.com/p/un-po-lora-notturna.html

Ci sono momenti in cui avvertiamo dei rumori misteriosi che provengono da fonti ignote, spesso sono causati dal vento, altre volte dalla nostra immaginazione, oppure sono, o sembrano, davvero inspiegabili.
Gli abitanti di V.g. da qualche notte a questa parte, sentivano un qualcosa che assomigliava, secondo certuni, ad una voce, una voce femminile proveniente dall’alto. Molti ritenevano che ciò fosse una suggestione, forse la brezza che scende accarezzando le colline porta con sé un sibilo prima inaudito, forse il vociare del giorno rimbalza nelle nostre orecchie anche durante la notte, e tutti sanno che nei sogni accadono cose ben più strane. Ma no, non stavano dormendo gli abitanti del paese, era soltanto notte, una notte silenziosa di campagna. Spesso sentivano latrare cani lontani, gli uccelli serotini che modulavano i loro canti, o, più avanti nella stagione, la frizione delle elitre dei grilli costanti e tenaci. Mai così tante persone, negli stessi momenti, avevano ascoltato la vocina soffiata, che parlava, benché le parole non s’intendessero. C’era chi guardava con sospetto il cimitero, forse qualcuno da lì era fuggito, c’era chi ascoltava ma non credeva, c’era chi non ne voleva parlare, chi gridava subito al miracolo, chi negava l’evidenza, chi si prendeva beffe di chi avanzava opinioni su quanto stava accadendo… Pur non essendo tanti gli abitanti, tante erano le considerazioni diverse che si respiravano nell’aria. Ovviamente, tra le ipotesi contemplate, non mancava quella secondo cui si sarebbe trattato di uno scherzo giocato da “non so chi” all’intera comunità.
Una cosa era sicura: la voce proveniva dall’alto.
Due o tre persone vollero salire sui tetti delle loro case per capire, scrutarono il panorama dall’alto, cercarono tra le fronde degli alberi un altoparlante o un megafono, qualcuno salì sui tralicci dell’alta tensione credendo fossero rumori causati dall’inquinamento elettromagnetico, altri accusavano il ripetitore non lontano: chi più di esso trasmetteva voci?
La teoria del ripetitore risultò piuttosto convincente, ma, richiesto il parere tecnico di un operatore del settore, i più abbandonarono anche questa strada.
E allora? Da dove proveniva quella voce?
E che cosa diceva?

A due amici del parroco venne in mente di salire sul campanile: la vetta più alta del paese, ed effettivamente da lì si potevano ascoltare le parole mormorate dall’alto:

avete guardato dovunque fuorché in cielo sussurrava e se anche adesso volgete i vostri occhi all’insù non vi accorgerete di me.

In effetti, non era facile guardare il Firmamento dall’ultimo piano del campanile, quello delle campane, sicché i due, senza dir nulla al parroco, osarono salire sulla cuspide e sedersi sui suoi bordi abitati da ostinate piantine di cappero. Ora sì che potevano vedere un bel cielo stellato, nitido e pulito, soltanto un po’ chiaro e ingiallito verso oriente e mezzogiorno, là dove si adagia la città con le sue mille luci.
Così mi vedete esultò la vocina così finalmente vi siete accorti che sono quassù. I due contemplavano solo stelle, era possibile che fosse una stella a parlare? A poco a poco una torma d’increduli s’affollò sotto il campanile, scrutando ed ascoltando i due compaesani che parlavano al cielo. Alcuni mormoravano della follia dilagante, altri sorridevano divertiti, ma presto si accorsero che una stellina brillante stava rivolgendosi anche a loro.

Così mi vedete ripeteva, e mi rivolgo a ciascuno di voi.
Ora che i vostri umili occhi umani si sono posati su di me drizzate bene le orecchie, ed ascoltatemi. Io ogni estate brillo sulle vostre teste – una tra tante – direte voi, ma così non è.
Così mi vedete, una tra tante, ma sono l’unica che dà ricchezza davvero alla vostra vita ed al vostro lavoro: voi, infatti, non sapete che senza di me le vostre viti non crescerebbero, ed avvizzirebbero rattrappendo e piegandosi fino a seccarsi senza dare frutto.
Raccogliereste solo pochi acini, aspri e poveri, da cui neppure una misura di mosto sarebbe possibile ricavare. I vostri raccolti, la vostra prosperità, il vostro ottimo vino sono solamente opera mia; non crediate che sia grazie al lavoro svolto con premura e sollecitudine, con fatica e sacrifici.

Gli ingenui abitanti del paese erano sconcertati, alcuni si ritenevano offesi ed amareggiati, ma i più nutrivano una specie di timore reverenziale che li spingeva a dare ragione all’astro petulante. Nessuno osò contraddire ad alta voce la stella, rivendicando l’importanza del proprio lavoro, nessuno manifestò il proprio disappunto, e nel villaggio si diffuse un ineffabile silenzio, rotto soltanto dai grilli costanti e tenaci. Fu però proprio dalla terra che si levò una voce contraria.

Cari abitatori del terreno che mi ricopre, non fatevi abbindolare dalle parole sciocche della stella soltanto perché brilla sopra le vostre teste, non lasciatevi sedurre dall’inganno: è una menzogna quello che dice. Se le viti che, grazie al vostro lavoro, producono uva succulenta e bella, una parte del merito deve andare a me, giacché se io non drenassi la terra, e non la rendessi fertile con le mie scorie essa sarebbe più povera. La stella è lassù in cielo, una tra tante, cosa credete che possa fare? Non datele retta e, piuttosto, ascoltatemi: vi chiedo di donarmi parte del vino – com’è giusto – perché rivendico parte del merito alla buona riuscita di esso.

Un lombrico viscido ed insignificante aveva parlato e, ben deciso, aveva avanzato le sue richieste.
Tali parole scaturirono subito la reazione della stella.

Strana notte questa, che mi vede opposta ad un verme della terra, vorrei tanto risponderti tacendo, ma lo faccio a parole, sicché tu sia umiliato davanti a tutti e torni a nasconderti nelle oscure profondità del pianeta. Tu dici di concorrere alla buona riuscita del vino della regione, tu, proprio tu! Io con un solo sguardo brillo su tutte le viti del pianeta, tu in tutta la tua vita percorrerai sì e no cinque filari. E poi osi anche avanzare richieste? Tu, viscida virgola? Ricordati che se è vero che le tue scorribande sotterranee giovano alla salute del terreno hai già la ricompensa che chiedi quando ti nutri dello stesso terreno. Che cosa esigi di più? Che cosa vuoi ancora? Guarda me, se hai gli occhi, e pensa che io brillo sui filari e non ricevo nulla in cambio. Sono io, soltanto io, in debito con questa gente: chiedo pertanto che mi venga offerto tutto il vino rimasto a partire dalle ultime quattro vendemmie.

La stella non aveva ancora terminato il suo discorso che il lombrico era scomparso tra le zolle profumate.

Ora gli abitanti del villaggio erano in pensiero perché non sapevano come fare per soddisfare la stella: non era infatti tanto un problema recuperare il vino, quanto come porgerglielo. In realtà parecchi non avevano capito molto di ciò che la stella ed il lombrico avevano detto, perché le loro parole sembravano troppo difficili ed inconsuete alle loro orecchie, più propense a distinguere i diversi canti degli uccelli che alle finezze lessicali. Ognuno pensava, c’era chi progettava una scala infinita, chi una fionda sparabottiglie, chi delle molle per saltare fino alla Via Lattea, qualcuno confidava in un miracolo… C’erano studiosi improvvisati, per lo più insegnanti in pensione, che tentavano di calcolare ad occhio nudo la probabile distanza dal suolo all’astro senza però trovare un accordo né una stima convincente. Intanto il tempo passava, e i grilli costanti e tenaci perpetuavano la loro canzone. La notte ormai era terminata, la stella incitava, scalpitava, aveva fretta perché dopo qualche ora sarebbe scomparsa, vinta dalla luce del sole. Ma la gente del paese non riusciva, con tutta la buona volontà, ad escogitare un modo concreto ed efficace per donare il vino al cielo. C’era perfino chi, recuperato un deltaplano, provò a sfruttare le timide correnti ascensionali abbozzando, nelle ultime propaggini della notte, un volo tanto incerto che non si elevò oltre il doppio dell’altezza del campanile. Qualcuno, infine, prese dei tini e vi fece bollire grandi quantità di vino che, evaporando, solo in minima parte raggiunse la stella la quale, affatto contenta, ne esigeva tanto e tanto ancora. La scala infinita non era più alta del campanile quando albeggiò sulla frazione di V.g., e la stellina scomparve sdegnata. Sopraggiunto il mattino, grazie al benefico influsso del sole, ciascuno tornò alle proprie case e prese ben presto a lavorare, dimenticandosi delle parole della stella.

Un contadino, guardando i grappoli acerbi, corse in casa a riempire un bicchiere di vino rosso: ma non era per lui, perché, una volta sotto una delle tante viti dei suoi filari, versò il liquido color rubino a terra. Da una fessura emerse il lombrico che lo ringraziò.

Umberto Pasqui