domenica 24 agosto 2014

Odoacre sconosciuto

Il racconto Odoacre sconosciuto è già stato pubblicato dalla casa editrice Prospettiva nel 2002. In questa veste il testo viene riproposto dopo l'uscita dal catalogo.
 
Ecco l'ultima versione (2014): l'immagine di copertina è di Giorgio Pondi.
 
 
 
Ecco dove trovarlo:

Intraprendere una lettura quando si sa che a scrivere è Umberto Pasqui lo si fa ben volentieri. Prima ancora d’entrare nel vivo della trama ci si predispone ad un prioritario entusiasmo che anticipa la certezza di poter essere attivamente-passivamente (pur volendolo a priori ci s’incaglia nella piacevolissima tirannia d’un assuefacente coinvolgimento) assorbiti dal piacere d’un linguaggio da decifrare attentamente.
Anzitutto non si può mai sapere dove voglia andare a parare la fantasia di quest’originale, avvolgente autore. Anche qualora sembri esordire nella mera puerizia propinante la mediocre narrazione d’un trito o quanto meno poco diversivo quotidiano, che si potrebbe prestare ad una proiezione d’idea alquanto limitativa, irrilevante dal punto di vista letterario, non passa il tempo di leggere la primissima pagina che, ribadendo le sue doti letterarie e, di conseguenza, smentendo lo scialbo inizio, ci si accorge già degli eccitanti, invitanti prodromi che ne seguiranno. Effetto che potrebbe apparire nello specifico di questo revisionato racconto se non si facesse dovuta mente locale al titolo. Titolo, questo, ambiguo nel cogliere indicazioni che rivelino un concreto anticipo del narrato. Ambiguo e purtuttavia emblematico. Non solo per quello sconosciuto, attributo che ne allarga la prospettiva, inducendo di per sé a riflettere. Ma soprattutto perché, proprio in forza di tale sua conclamata anfibologia, si presta ad essere letto come titolo multimetaforico, implicante un primario, ed appunto risolutivo, scervellamento che porta, nella sua intuibile scomposizione, ad una trivalente indicazione. Ossia: Odoacre pensabile come Odo (prima persona presente del verbo sentire) + acre (aggettivo funzionale ad un addirittura triplo approccio dei sensi, concernente il gusto o sapore, l’odore nonché l’aspetto caratteriale d’una persona). Laddove riterrei che la vera, larga idea stia nell’amplificazione del senso dell’olfatto, che forse, sul piano intuitivo, è la meno scontata.
Probabilmente, se non fosse sembrato troppo artefatto, Pasqui avrebbe potuto inserire un inizio titolo del genere: Odo(re)acre, quale univoca metafora, blandamente sinestesia, rappresentativa dei lutti dei tanti fratelli (ben undici) subiti dal protagonista, in aggiunta ad un’esistenza grama patita sotto la dittatura delle due ulteriori sorelle maggiori, gli unici consanguinei legami ancora a lui coesistenti.
Già questo prioritario suggerimento, promanante dal titolo, mette, a scanso d’equivoci, il diligente lettore nell’ottimale stato d’animo che avvalla la lettura del libro. In quanto, conoscendo anche la tipologia narrativa del nostro scrittore, s’intuisce che al di là d’un’eventuale apparente incipit poco incisivo, da ritenersi volutamente tale, il titolo preannuncia un improvviso, perentorio e sostanziale, cambio di registro scenico.
E, proprio così, nel metodico proseguire del racconto emerge presto un altro fattore di stimolo alla lettura: l’ignoranza (ridondante timbro col quale Pasqui vuole sollecitare l’attenzione, perché, da qui in poi, sarà fattore decisivo a marcare l’inattesa svolta della trama) della ferrea essenza volonterosa di Odoacre, che risalta, in forte controtendenza, nel disegno temperamentale del personaggio. Da una parte senza spina dorsale e dall’altra assiduo artefice dell’agire, nella parte più affabulante della storia. Un eroe-manichino, o se vogliamo una sorta di cane fedele, un robot tutto cuore e braccia, privo però d’una sua cerebrale autonomia, capace solo d’obbedienza e sottomissione. Apparenza però che scaturisce nell’iniziale presentazione del personaggio, che comunque ne riguarda il primo squarcio di realtà, completamente scevra d’ogni suo indipendente coinvolgimento. Odoacre e le sue due sorelle schematizzano in maniera perfetta quel rapporto psicologico in cui un individuo, perdente (ossia Odoacre) è succube, ed almeno un altro individuo, vincente (le due sorelle) ne è incube.
È perciò evidente come Pasqui avrebbe potuto ulteriormente riscrivere il titolo: Odoa(la)cre [leggasi più scorrevolmente: odo-alacre] sconosciuto. Dove l’attributo sconosciuto calzerebbe a pennello. Tuttavia sta bene così! È altresì evidente che non possano sprecarsi tante, troppe, osservazioni solo sul titolo d’un racconto. Fatto sta che quest’ultima presunta caratteristica, dell’alacrità, che mette in luce una certa potenzialità del personaggio principale, entrando nel vivo dell’intreccio, sarà determinante nel rivoluzionare la personalità di Odoacre!
In ogni caso, la seconda parte del titolo (sconosciuto) potrà essere meglio riconsiderata nel momento in cui la cupidezza delle possessive sorelle sarà scalzata dall’opposto libertario sentimento d’amore che Livia gli tributerà. Guarda caso, proprio in quel mentre, il nome Odoacre diventa nel narrato, grazie a Livia, Dodè, sul quale nome non sembra più possibile azzardare ipotesi. Nome libero da qualsiasi interferenza, degno d’una pienezza tutta sua.
Sarà quando l’originaria dimensione del narrato incomincerà a stratificarsi, assumendo gli usuali (con riferimento al nostro autore) risvolti onirici e nel contempo fabulatori, che finalmente astrarranno dall’opaca realtà ed assurgeranno invece ad immaginosa quanto distraente (significando ‘coinvolgente’) finzione.
La metamorfosi di Odoacre avviene navigando, imbarcatosi sulla sua piccola goletta (che nell’inventivo immaginario del protagonista è uno “sciabecco”).
Imbarcazione dal doppio autorevole nome di donna, che incarna la forza genetica d’una nuova maternità: Teodolinda (nome impostole da un parente) e Amalasunta (nome che Odoacre avrebbe preferito). Erano, queste, nella storia del medioevo, due donne barbare, longobarda la prima, ostrogota la seconda, le quali ebbero l’opportunità di governo interinale nelle veci dei relativi sovrani. Chiaro simbolo d’un grembo materno di rinascita.
Odoacre, nel suo svagato navigare, si perde e s’inoltra nella transitoria favola che gli cambierà la vita, intimamente.
Livia lo segue per conto suo ed anche lei si perde in balia del mare.
Alla fine saranno ritrovati insieme, issati a bordo dalla rete d’un’imbarcazione di pescatori, sottratti ad un’alga che li aveva fagocitati e che per sette giorni li aveva tenuti incapsulati nel suo involucro.
Sette giorni, lo stesso periodo della divina creazione: proprio il settimo giorno Dio si riposò. Ulteriore indice di catarsi. E si badi bene che la parentesi in cui subentra la favola, o comunque l’immaginario, è collocata in un limite di tempo ben più ampio. Un mondo il cui anno solare è misurato da atipiche stagioni, assolutamente irrelate e che costruiscono spazi temporali altrettanto fantasiosi. Non a caso Pasqui suddivide il contesto del racconto in quadranti piuttosto che in capitoli.
Di conseguenza anche gli immaginari mondi, isole, loro fusioni, montagne, promontori, insenature, che si srotolano nelle pagine di questo fantastico libro è inutile anticiparlo quanto siano dissimili dal mondo reale. Chi conosce Umberto Pasqui lo può agevolmente immaginare; chi non lo conosce ancora lo legga e lo capirà. Idem per i personaggi.
Lasciamo perdere i luoghi ma non trascuriamo invece i personaggi.
Sia gli uni che gli altri, come di consueto, nei nomi identificativi assommano altrettante loro peculiarità, spesso contrapposte, ossimori della realtà, e, specialmente le figure animate, chimere dell’esistenza. A parte il realistico, necessario “entourage” umano che fa da sponda ad Odoacre, praticamente Livia e le undici ombre dei suoi defunti fratelli, che appaiono nel tragitto della sua avventura odissea chiedendogli il favore d’aiutarle a superare il limbo della terrena esistenza, le altre figure, quelle precisamente deducibili dalle trame irreali, si possono definire, piuttosto che personaggi, ‘creature’. E mentre le prime, figure di persone realmente esistenti, in una divisione per classi di qualità o di ruoli, ci pervengono tramite l’ottica distorsiva dell’alterato ego di Odoacre, col quale ne avverte anche l’irrimediabile curiosa sorte, tali da essere inquadrati in un vissuto omologo alla relativa definizione (“contromadri”, “frettolenti”, “sivergogni”, “giasentiti”, “ristorrendi”, “piangineve”, “telèbeti”, “parlinvano”, “impegnanti”, “sparachiasso”, “ubisproloqui”, “convadenti”, “precarelle”, “esteridioti”), invece le seconde figure sono esseri impensabili quanto ad una loro possibile effettività. Elenchiamone alcune: “Gheppio Caracalla”; “Domitilla”, fanciulla che diventa regina per aver individuato il perfetto centro acustico dell’Isola delle due Campane;, “Vittoria Mareggiata”; il pesce-filosofo “Nereo”; il trasformista “Martagone del Maggiociondolo”; “Scorpione Elefante”; “Eliopanto”, maestro (pensate un po’) di “tuttologia pressappochistica” che agli amici, invece di dare del tu, dà dell’io (sì, avete capito bene!); il gigantesco, bellicoso lombrico “Cercarogne del Colle Bagnato” e “Barsanofrio”, da quest’ultimo di spada infilzato e tranciato in due, nonché suo padre “Crisobulo”; la “libellula gigante”, quale mezzo d’aerea locomozione; ed una serie di pesci elettrici, suddivisi in 22 specie, e altre creature marine tra cui “placide ascidie”, “minacciosi gigantostraci”, dalle chele spaventose, ed i “narvali”, conduttori di “caporemi”, pirati in senso buono (che fanno del bene anziché il contrario) delle Acque di Ghiaccio, sorta di sirene nane…
Affondando l’analisi nei valori, nel concludere, si può ancora asserire che con questo suo gioioso racconto, in cui il concetto escatologico non assurge solo a limite di paragone ma ne è l’essenza, Umberto Pasqui vuole affiancare ad ogni essere umano, per la sua parte individuale negativa dell’esistere, un barlume di speranza che, pur talora riducendosi al miserrimo lumicino, è opportuno ed auspicabile che non si spenga mai. L’ennesima lezione proveniente dal nostro autore, che, in tutta umiltà, vuole suggellare in questo libro a dir poco paradigmatico.
 
Emilio Diedo
(Prefazione di “Odoacre sconosciuto”)

sabato 23 agosto 2014

Saturno e l'Assoluto

Il racconto Saturno e l'Assoluto è già stato pubblicato (seppur in forma diversa) nella raccolta di racconti “Il Fiore delle idee” (Michele di Salvo Editore, 2000 e 2002).

 
Ecco l'ultima versione (2013-14): le immagini di copertina sono di Giorgio Pondi.
 

 
Dove trovarlo?

http://www.lulu.com/it/it/shop/umberto-pasqui/saturno-e-lassoluto/paperback/product-21700917.html


 

Che Umberto Pasqui sappia scrivere bene, soprattutto narrare favole incorniciate tra la fantasia e la realtà (per quattro quinti fantastico e solo per il rimanente quinto verosimile), talvolta proiezione d’un onirismo assolutamente sui generis, che, quanto ad effetto, superano alla grande le favole di canonica fattura, è nozione risaputa.

Narrativa aspecifica che lui, umilmente e comunque incurante che questo suo narrare possa annoverarsi in un’innovativa demarcazione letteraria, definisce, nella singola particella d’unità, semplicisticamente ‘racconto’.
Il fatto è che ogni volta si legga qualcosa di suo, non si è in grado di poter fare una ragionevole previsione di dove possa andare a sbattere le ali l’incipit di turno. Com’è vero che quest’altro, riedito, ‘racconto’ è strutturato tra mitologia e, fate bene attenzione, astronomia. Eccola la puntuale novità di quest’ultimo (ma non ultimo) lavoro: la materia astronomica!
Accessione, questa dell’astronomia, che potrebbe indurci, senza aver ancora letto almeno qualche pagina del testo, in un pensiero immerso in quell’ordinaria fantascienza, d’eccezionale interesse, sì, ma ben inquadrata in un’ottica in cui lo stupore sia abbastanza prevedibile, in special modo elaborata su astronavi, navicelle spaziali o altri mezzi aerei all’insegna d’una scienza che comunque non sfugga, ormai (in forza d’una molto ampia, se non trita letteratura), più di tanto alla portata della mente del contemporaneo lettore, giovane o meno giovane che sia. Laddove l’astronomia di cui s’avvale Pasqui è, qui, del tutto insospettabile, essendo essa rappresentata, nella descrizione che ci perviene, in un apparentemente normale labirinto spaziotemporale, i cui mezzi di locomozione sono fantastici animali alati, non, o non soltanto, mitologici grifoni, arpie… unicorni bianchi, bensì originalissime altre chimere, nel significato più largo e moderno che il termine ‘chimera’ possa evocare. Draghi alati a parte, unico elemento intrusivo ma giustificabile con l’esigenza di dare corpo ad una forte metafora che incarni il male (essendo essi al servizio degli Sberfi, esseri che praticano una sorta di schiavismo senz’alcuna pretesa di servitù da parte dei malcapitati), per il resto si tratta di straordinarie figure di creature posticce e nel contempo belle, piacevolissime. Senza troppi mostruosi, deformi animaleschi incroci che incutano terrore, sgomento, inquietudine. Sono graziosi, ameni adattamenti: volasini, alicanguri. Assemblaggi quasi invisibili. Unica loro variante, l’aggiunta d’un paio d’ali. Anche i camelopardi, fra i quali Saetta, esemplare preferito dal conte Saturno, ambedue protagonisti del presente ‘racconto-favola’, altro non sono che bellissime giraffe dalla gigantesca, maestosa apertura alare. Creature che, semmai, arricchiscono in bellezza la loro naturale anatomia.
Il teatro della narrazione invece non esula troppo da un’impostazione usualmente fantascientifica.
Purtuttavia se ne concepisce una divertente, talvolta scompisciante impalcatura. Dalla Terra, da dove parte la ricerca che esplica il profondo significato teoretico, teologico nonché teleologico, e che imprime la giusta morale (sofisticatamente filosofica) della favola, consistente nella ricerca dell’Assoluto («Mi hanno detto che per nascere sono uscito dalla pancia di mia madre, così ho iniziato a conoscere il mondo. Ora, per conoscere l’oltre, devo uscire dal mondo. Per poi rientrarci», così s’esprime la dialettica maschera del conte Saturno), l’intreccio transita per l’orbita della Luna, e per le altre orbite di pressoché tutta la nostra galassia, di volta in volta incontrando vite alternative, talora non troppo, a quella umana (vedansi i Mangiacuori, i Cercamoglie) e strutture le più assurde ma compatibili con le relative atmosfere dei pianeti e dei satelliti di pertinenza. Viaggio che finisce col raggiungere, tanto per fare un esempio, un’ultrafantastica Cometica («regione in cui nascono le comete, ricca di pietre ghiacciate vaganti nello spazio»). È così che questa particolarissima fattispecie di fiaba s’insinua tra corpi astrali veri o inventati, sino ad afferrare finalmente quell’idea d’Assoluto che in sé si confonde tra vita e morte, essere e non-essere, l’esistenza ed il nulla, espandendosi in un impenetrabile Oltre, teoria e realtà, luogo e tempo, che per la scienza astronomica (per certe nozioni ancora presunta ma ogni giorno sempre più vicina alla realtà) dovrebbe all’incirca corrispondere ad ammassi stellari consistenti in un affollamento di qualcosa come non meno di centoventimiliardi di galassie, imbrigliate tra un’altissima percentuale (stimata nella misura del 70%) di “energia-materia oscura”. Naturalmente proprio qui termina la vittoriosa cavalcata (incompiuta ma bastevole risposta per l’intelletto del protagonista e del lettore) del conte Saturno, figlio del conte Urano, che, recuperando l’esistenza del genitore (prima di lui partito nella medesima ricerca e fino ad allora dato per disperso), recupera altresì la via del ritorno sulla Terra.
Nei due nobili eroi Urano e Saturno, nomi paralleli a quelli dei due omonimi corpi celesti, è palese la metafora che indica come l’uomo sia presente, tanto quanto il cosmo, e forse ancor di più, nell’esistenza e nel destino del creato, incarnandone passato, presente e futuro. Perché, di fatto, è l’uomo a scoprire la natura di quest’ultimo, la struttura e la consistenza; non viceversa, assiomatica ipotesi. Nell’uomo è implicita la forza dell’universo. L’Uomo è il Cosmo!
La favolosa ricerca di Umberto Pasqui, inutile dirlo, in un barlume di memorabile pensiero, rievoca l’epico, ariostesco, metaforico volo di Astolfo sulla Luna, nell’intento di recuperare lo smarrito senno d’Orlando. Chiaramente non è sul confronto etico che si deve valutare quest’opera, dal tono affatto diverso, in quanto libera, sciolta narrativa, fiaba intabarrata nel reale.
L’originalità del nostro autore s’intravede, ed in toto, nell’attribuzione di consistenza ad un’avveniristica ipotesi di vita eretta in un comunitario universo economicamente saldato addirittura da un’unitaria moneta, capace di regolare transizioni e servizi a livello interplanetario: il Sole. Dove, circa un altrettanto comune linguaggio, persino un umanissimo “perbacco!” o “perdinci!” trova coerente traduzione in una cosmica, compatta esclamazione: “Pleiadi brillanti!”.
E, similmente all’ordinaria qualifica che inquadra noi gente di Terra come “Terrestri”, gli abitanti della Luna sono detti Lunestri, quelli di Marte, Martestri e via d’un siffatto passo.
Non sorprenda, poi, che sulla Luna possano essere collocate allegoriche zone tali al Mare delle parole, alla Rocca delle domande ed all’antagonista Rocca delle risposte, quando, prima ancora s’apprende che, sorta d’Atlante di viaggio, uno strumento informativo tale a l’Enchiridio del nocchiere celeste è in grado di rispondere pressoché ad ogni richiesta di carattere non solamente figurativo e geo-topografico ma più ampiamente pratico, locomotorio e logistico («libro manuale per colui che volesse intraprendere un viaggio dal pianeta Terra alla Cintura del Centauro», ai confini dell’universo).
Penso sia giunto il momento di fare i conti ognuno un po’ per sé, leggendolo questo entusiastico regalo, l’ennesimo che Umberto Pasqui ha voluto farci. Nel leggerlo, non lo si potrà che gustare. Ne sono sicuro!

 
Emilio Diedo
(Prefazione di "Saturno e l'Assoluto")



Un altro piccolo contributo storico


Nicholas Farrell e Giancarlo Mazzuca, per l'editore Rubbettino, hanno pubblicato "Il compagno Mussolini".
 
Così si legge in copertina:
Lo scopo di questo libro è quello di dimostrare una verità negata. La scelta di Mussolini - a causa della Prima guerra mondiale - di abbandonare il socialismo internazionalista a favore del socialismo nazionalista (che poi diventò il fascismo), fu una tra le scelte più importanti del Novecento, non solo per l'Italia ma anche per l'Europa e per il mondo. La scelta che Mussolini fece nel 1914, però, non fu da cinico assetato di potere o da corrotto al soldo della borghesia, ma da devoto socialista rivoluzionario: la guerra gli aveva fatto capire che gli uomini sono più fedeli alla loro nazione piuttosto che alla loro classe. Per Mussolini dunque la Prima guerra mondiale fu una guerra rivoluzionaria e non reazionaria. (...).
 
E io che c'entro?
Grazie a una piccolissima collaborazione mi sono meritato
un ringraziamento a pag. 311 e una citazione a pag. 335.

http://www.store.rubbettinoeditore.it/il-compagno-mussolini.html

giovedì 21 agosto 2014

Rassegna solenne


 

Rassegna solenne è il titolo di un grosso volume pubblicato per l'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove. Solenne un po' per lo spessore (in tutti i sensi) ma anche per l'occasione rilevante del centesimo numero della Rivista dell'Osservatorio. Fa il paio con l'Antologia giubilare “Altro non faccio” pubblicata nel 2011. Artefici sono l'ideazione e il coordinamento di Melinda Tamas-Tarr, ferrarungherese che da anni, con tenacia, porta avanti iniziative culturali. L'antologia, pertanto, in oltre seicento pagine contiene opere di quasi cinquanta autori ungheresi e italiani, classici e contemporanei.
Si tratta, dunque, di un importante e corposo “assaggio” bilingue di quanto, nella considerevole esperienza della Rivista, è stato fatto. Una Rivista, tra l'altro, che grava sulle spalle dell'indefessa Melinda Tamas-Tarr che con orgoglio e senza troppe smancerie promuove un significativo lavoro di collezione e valorizzazione delle culture italiana e ungherese di ogni tempo.
 
Per la “squadra” di scrittori o poeti italiani scendo in campo anch'io, tra le pagine 424 e 441. E con me grandi firme del passato, tra cui il mio concittadino Lorenzo Stecchetti (cioè Olindo Guerrini) e Guido Gozzano. Tra i vivi, posso fare i nomi di Gianmarco Dosselli, Ivan Plivelic, Ivan Pozzoni, Emanuele Rainone, Franco Santamaria, Mario Sapia, Ambra Simeone. E tanti altri che si sono dedicati maggiormente alle traduzioni o alla saggistica. E poi c'è un'ampia fetta magiara, con nomi difficili da ricordare (e da scrivere) ma assolutamente da scoprire e approfondire.

Mi piace citare l'argentino Fernando Sorrentino che in quest'antologia ripropone l'ormai classico L'irritatore (in seconda stesura), sempre godibile a leggersi.

Per quanto mi riguarda, sono stato selezionato con una poesia, un saggio breve ed alcuni racconti. Tra questi: Il canto di mezzanotte (più o meno l'evasione di un cucù dall'orologio), Nel giardino degli iperborei (un'avventura finita male per improvvidi escursionisti), Il principe degli asteroidi (un personaggio speciale, capace di scrivere con le stelle), Abbagli (cioè dell'avidità, in salsa cinquecentesca, per l'oro nelle Indie occidentali), Zuriva (un'enigmatica città scomparsa sotto il mare, forse), Mutevoli identità (un disagiato assume falsi sé, solo per apparire), In via del tutto eccezionale (su questa strada, le persone hanno tutte la stessa faccia, a meno che...), L'ultima cosa che arriva (una voragine inghiotte tutto, ma ci si penserà poi).
 
Ecco dove trovare il volume:
 
Altre informazioni:
 
Umberto Pasqui
 

mercoledì 20 agosto 2014

Dritto al cuore


A fine maggio m'imbatto nella selezione per un'antologia a scopo benefico, scrivo un racconto, lo invio: così il mio Ormelie di Ravaldino è stato inserito tra le pagine di Dritto al Cuore. L'iniziativa, a cura di Igor De Amicis, Sira Terramano, Vincenzo Valeriani è pubblicata da Galaad Edizioni. Vanta una prefazione di Andrea G. Pinketts e all'interno si può trovare un racconto di Carlo Lucarelli (Questo cuore nero).
Il volume di quasi 150 pagine si propone come antologia del mistero, del grottesco e della follia. Il ricavato verrà devoluto al progetto “Mettici il cuore” dell'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
La raccolta è scandita da un centinaio di brevi racconti.
 
Vi si riconoscono, oltre a me, altri due romagnoli: Ferdinando Borroni (A Natale siamo tutti più buoni) ed Enrico Teodorani (Con la gentilezza si ottiene tutto). Se il primo vuole spiazzare con un'osservazione sulla “bontà” che da apparentemente morale diventa sensibile (il gusto), il secondo ripropone Durìn che risolve, a suo modo, una vicenda d'affitto altrui, con la pistola, ovviamente.
Il quadro di Sonia Tortora si tramuta, per la protagonista, da realtà dipinta a realtà vera mentre con ironia, Bruno Zaffoni, porta Il cappuccio rosso noto al mondo delle favole in commissariato.
Il piccolo lago di Lodovico Ferrari nasconde una creatura mostruosa malgrado l'apparente pace (messa in dubbio da qualche preavviso), al contrario La strage di Bruno Elpis muove da tinte fosche per sortire un esito ben diverso da quanto ci si aspetterebbe. Patrizia Benetti concentra l'attenzione sullo sguardo inquietante di una sorellina incendiaria (La Fattoria) e un compleanno importante è descritto da Alberto Cola (Poi passa), arricchito da varia umanità.
Altre decine di racconti sarebbero da citare, ma tanto vale acquistare il libro.
Sono storie che, sebbene non tutte risuonino sinistre, partono da un presupposto misterioso. Singolare per un'antologia benefica a favore di bambini.
Ma Sira Terramano, nell'introduzione spiega che destinatari del libro sono i “lettori accaniti di un genere che non ha età”. Più copie si vendono, infatti, più bambini si aiutano. Con questo spirito, Andrea G. Pinketts, nella prefazione, osserva che “se scrivi di cuore hai un fine, non una fine”.
Con Ormelie di Ravaldino ho immaginato che, nel prato adiacente alle carceri forlivesi, siano impresse delle impronte cantanti, definite per crasi semantica: “ormelie”. Che cos'hanno da cantare? Visto che si è vicini alle prigioni, il cantare è più che altro un parlare. Un parlare derivante dalle voci delle vittime di un efferato assassino di cui da tempo si sono perse le tracce.
In attesa che qualcuno, finalmente, si fermi ad ascoltare. 
Per saperne di più:

Umberto Pasqui

Su "Noir in Romagna"

Che intervistona sul blog "Noir in Romagna": grazie!

Umberto Pasqui, forlivese, non è uno scrittore noir, ma uno scrittore tout court, con una prosa originale, che di tanto in tanto si è dilettato anche nella scrittura di racconti gialli.

Per sapere come va avanti:

http://vittoriodelponte.blogspot.it/2014/08/intervista-umberto-pasqui.html

***
Noto però che a oggi (24.2.19), il blog è sparito e con esso quanto contenuto.
Ho recuperato quanto vi era scritto che qui incollo:
Vorresti presentarti brevemente ai visitatori del blog?
Sono giornalista pubblicista, dottore in Giurisprudenza, dottore in Scienze religiose, insegnante. Ho sempre coltivato la passione per la scrittura. Di carattere riservato, evito volentieri di farmi troppa pubblicità e prendermi sul serio come “scrittore”. A meno che non siano altri a scoprirmi. Sono semplicemente uno che scrive e pubblica delle storie. Non saprei etichettare il genere dei miei racconti; essendone geloso non amo che qualcuno lo faccia per me. Mi occupo anche di storia locale (romagnola, forlivese) e di birra.  
Quali sono gli autori che più ti hanno influenzato?

Ammetto di non essere un gran lettore, quindi non credo di subire influenze. Ho imparato a leggere prima di andare a scuola, grazie a Topolino e alle targhe delle automobili. Certo, mi piacciono i racconti brevi che si prestino a sviluppi metafisici e surreali. C’è chi legge in ciò che scrivo riflessi di Calvino (mi hanno sempre suggestionato le sue “Città invisibili”) o Verne, o situazioni kafkiane. Ma credo che più che altro sia stato influenzato da quadri, quelli di mio nonno Enzo.

A chi ti ispiri per i tuoi personaggi?

A chi vedo in giro, a chi incontro, a cose che mi succedono o che immagino. Prendo un po’ di qua e un po’ di là e misteriosamente ne viene fuori una storia. Non so, a me sembra una cosa semplice. 
I tuoi personaggi spesso hanno nomi inusuali o arcaici: come mai questa scelta?
Perché abbiamo la fortuna di parlare e di scrivere nella lingua più bella del mondo. Quindi evito il più possibile voci “aliene” e vado alla ricerca di espressioni pure e fresche, non inquinate dal contemporaneo sebbene spesso mi piaccia coniare neologismi. Mi curo di riscoprire parole obsolete e dimenticate, avendo premura di non appesantire la narrazione. I nomi inusuali partono appunto da questo presupposto: probabilmente sono bastian contrario e sto bene alla larga dal dare, per esempio, nomi inglesi ai miei personaggi. Perché spesso i “miei” nomi sono legati al luogo in cui abito, hanno un legame affettivo, o sono evocativi, o sono semplicemente desueti.  Mi pare, paradossalmente, che puntare tutto sul locale sia più originale e meno provinciale che omologarsi nel presente globalizzato.
Quando scrivi segui una scaletta fatta preventivamente o ti lasci semplicemente guidare da un'idea?Quando seguo una scaletta è la volta che non porto a termine il progetto. In genere fisso dei punti, non necessariamente consequenziali, e la storia nasce da sé, dai particolari, da cose che noto nella quotidianità, fatti, persone, nomi, luoghi, sogni. Prendo appunti e poi, anche a distanza di anni, ne traggo qualcosa.
Cosa stai scrivendo ora? Oppure eventuali progetti futuri?
Più che altro, adesso, mi dedico alla saggistica: la storia locale è una mia grande passione. Non avendo preso mai tanto sul serio i miei racconti li pubblico in proprio, nell’eventuale attesa che un editore se ne accorga. Per il resto, non perdo occasione di partecipare a concorsi per la realizzazione di antologie, meglio se cartacee.

martedì 19 agosto 2014

Costellazione 21


Tra le pagine di Costellazione 21 è accolto il mio Oceania. L'antologia, curata per EF Libri da Andrea Teodorani, raccoglie ventun racconti di fantascienza. Il risultato è un'alchimia curiosa. L’arcana profezia sibillina delle Aquile di Ferro (del curatore) viene realizzata nel rapporto di fiducia tra un nonno ascoltato da un solo nipote, tenerezza che però lascia il futuro con un punto interrogativo. In effetti, se il tema è la fantascienza, spesso si suole scrutare il cielo, cercando di andare oltre ai confini della vista umana alla ricerca del mistero. Oltre allo spazio c’è anche la coordinata del tempo da cui prende spunto la vicenda delle gemelle Oche di Marco Bertoli; le protagoniste dal cognome Anseri (“anseres” sono le oche latine) sono attratte in tutti i sensi dalla storia romana. Bruno Elpis, in Ventunesimo secolo, offre in un lungo contributo gli aneliti, da sempre presenti nell’uomo, verso l’immortalità. Il piglio positivista di un’umanità proiettata più sui satelliti di Giove che sulla terra poi si approfondisce ponendo interrogativi etici sull’opportunità e sul dramma esistenziale di una vita in un “mondo prolungato”. Ultima stella della costellazione è Spazio nero di Enrico Teodorani, in poche parole l’amaro che viene servito dopo una lauta cena. In un sorso, si svela la vera natura di un apparente dialogo: è un soliloquio. Tra gli altri autori, si citano Davide Rigonat, Alessandro Maiucchi, Francesco Grimandi, Davide Schito, Patrizio Pacioni, Mauro Cancian, Francesca Paolucci.
 
In Oceania racconto della “Grande Spedizione”, cioè dell’idea di un vago e visionario Presidente di conquistare l’oceano, colonizzandone ogni “cubacqua”. Ciascun abitante del pianeta è chiamato ad esplorare e a dare il nome a una porzione di spazio liquido. Arturo Stella, in tale circostanza, s’imbatte in una scoperta sorprendente e inattesa. Specialmente quando un incidente rende evidente le impreviste possibilità di una rinascita subacquea. Lo stile, se mai qualcuno se ne fosse accorto, a volte, specialmente all’inizio, sembra ripetersi, si ripropongono argomenti già espressi. L’espediente vuole imitare la discesa lenta e circolare, a tempo di valzer, verso le profondità marine.
 
Ecco dove e come acquistarlo:
 
Altri riferimenti qui:
 
Umberto Pasqui